Altri Sport
12 Agosto 2021

Il ciclismo italiano è a un punto di non ritorno

L'allontanamento di Cassani è solo la punta dell'iceberg.

La Federciclismo ha deciso di rimuovere Davide Cassani dal ruolo di CT della Nazionale. In ammiraglia dal 2014, Cassani aveva l’arduo compito di rilanciare il movimento dopo anni di magra e il desolante vuoto attorno al totem Nibali. Oggi, con lo Squalo in fase crepuscolare, il ciclismo italiano è a un punto di non ritorno: non vinciamo un Giro d’Italia dal 2016, una grande classica dal 2019 e una tappa al Tour de France dal 2019. La Nazionale ha numeri drammatici, senza mondiale da 13 anni e senza olimpiade da 17.

Cassani ha dato molto e paga più di quanto abbia demeritato: il suo personalismo, evidentemente, non è stato digerito dalla nuova presidenza. Ma i problemi del ciclismo italiano sono da cercarsi altrove. Intriso di epos, forgiato dalla sublimazione dell’impresa, il ciclismo è divenuto ostaggio di nevrotici narcisisti, ossessivi-compulsivi di prestazioni, imperterriti ricercatori di pseudo riscatto in uno sport privato dell’elemento meritocratico.



Il ciclismo non è più atto ma azione. L’industria della bicicletta, che ha registrato numeri in crescita durante la pandemia, e l’esercito di pedalatori amatoriali avrebbero dovuto traghettare il movimento favorendo l’inclusione sociale dei giovani e rinvigorendo alle fondamenta un intero movimento. Ma così non è stato. Il tentativo subdolo delle multinazionali ciclistiche sta andando nella direzione sperata: avvicinare i pedalatori domenicali al complesso mondo professionistico. Biciclette a tre zeri, materiali di ultima generazione, la rincorsa all’ultimo accessorio trendy.

Altro che mezzo di libertà, la bicicletta divide: i ricchi da una parte, i poveri dall’altra.

Nel buffo e folkloristico mondo degli amatori, in cui pullulano aspiranti campioni con la siringa pronta a gonfiare le vene di potenti elisir di forza e resistenza, basta staccare cospicui assegni per ottenere un lasciapassare all’agonismo tanto agognato. Le grandi classiche muoiono al cospetto delle faraoniche Granfondo. Belle, ricche, dicono pure selettive. Peccato poi che su alcuni percorsi, proposti al Giro d’Italia, i professionisti passeggino e gli amatori (che poi cos’è che esattamente amano?) un po’ ci rimangano male. Meno Granfondo e più vivai. Meno ciclopanzoni accessoriati e più ragazzi in bicicletta. Altro che nuovo CT, serve una rivoluzione culturale.

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