In Florida la rappresentazione della F1 targata Liberty Media.
Miami è stato, senza dubbio, un evento di successo per il nuovo corso dato da Liberty Media alla Formula 1. Una tappa di riferimento del nuovo equilibrio voluto dal promotore americano, con grandi eventi internazionali che funzionino sia per coinvolgere gli appassionati del motorsport sia, soprattutto, per allargare il mercato del pubblico mettendo in piedi un vero e proprio show a 360 gradi – per tutti i gusti e tutte le piattaforme.
Liberty Media utilizza una miriade di statistiche, dati, metriche per valutare il successo del proprio prodotto, e sarebbe sciocco tentare di sostenere che la seconda gara negli Stati Uniti, dopo Austin, non abbia ottenuto esattamente ciò che si prefiggeva. Dal canto suo, il nuovo e sempre più corposo calendario organizzato dalla FIA è più lungo che mai (Checo Perez ha denunciato, giustamente, il numero di gare sempre più inconciliabile con una vita familiare) e questo genera opportunità e spazio per weekend di gara, sia tradizionali che soprattutto nuovi. Ecco appunto Miami, un GP che ha attirato un’enorme quantità di attenzione, portando la Formula 1 a un nuovo pubblico e creando un altro solido punto d’appoggio nel Paese americano.
Al di là del bene e del male, questo iperbolico se non alienante GP ha offerto una fotografia non di quello che vuole essere la Formula 1 di oggi, ma di quello che già è e, nella migliore delle ipotesi, sarà anche un domani: un grande – nel vero senso della parola americana “BIG”, dove quantitativo è sinonimo di qualitativo – evento mediatico, una Eurovision in salsa motoristica, dove il motivo dell’evento, lo sport, le auto che sfrecciano e i piloti che si danno battaglia e sfidano la morte, diventa uno tra i tanti motivi dell’appuntamento assieme allo show, ai concerti, alla propaganda politica neoliberal, fiere, spot pubblicitari, product placement e attività di marketing.
Se n’è accorto pure Aldo Grasso sul Corriere della Sera che «tutto pareva finto, a partire dalla pista che ricordava quelle delle automobiline». E così «in attesa del metaverso ci siamo goduti il Gp di Miami, il più somigliante ai videogame». In effetti, tra acqua di cemento su cui si poteva blasfemicamente camminare, yacht veri e yacht club posticci, lo spettacolo di contorno è stato spesso al limite del trash. Se il finto porto con barche vere era niente meno che uno stand hospitality di Azimut-Benetti e MSC Crociere, marchi italiani che hanno un giro d’affari – ca va sans dire – molto importante da quelle parti, è vero anche che spingere troppo sugli effetti speciali fa perdere di vista, ancora una volta, il centro di gravità permanente della Formula 1: la gara.
Tutto questo casino serve a uno scopo, come dice Stefano Domenicali: quello di creare nuovo interesse. Eppure molti problemi legati alla filosofia della nuova era persistono.
Sì perché oltre l’ondata di trash che si è riversata dentro e fuori la griglia di partenza, i cenni di metaverso tra realtà e finzione del paddock, Miami ha evidenziato anche la schizofrenia della gestione dei piloti da parte degli organi federali. Il nuovo divieto per piercing o mutande “sbagliate” è stata l’ennesima idea tecnocratica da bruciare nel cestino ancora prima di averla proposta. Per fortuna si è accesa subito una sacrosanta protesta da parte dei piloti più carismatici: Hamilton che si presenta in conferenza stampa «facendo sembrare misuratamente sobrio l’outfit di Cristiano Malgioglio alla prima comunione della nipote» citazione del sempre apprezzabile Mario Donnini su Autosprint, e Vettel che si fa fotografare con i boxer sopra la tuta, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a chi come noi vede i piloti di Formula 1 sempre più inermi in balia di FIA, Liberty Media, uffici marketing e stampa.
Il processo alle mutande, l’enorme quantità di finzione ed eccesso di zelo nella promozione dell’evento, la cavalcata di celebrità estranee al motorsport mostrata inesorabilmente nella fase pre-gara. Tutto questo continua ad essere stramaledettamente noioso per chi è convinto che dovrebbe bastare il valore eroico di uomini e mezzi sparati a 300 all’ora per “vendere” la F1, e che la F1 non sia un prodotto da ingozzare di hype da realtà aumentata e una passerella per una cloaca di vip. A questo proposito, una menzione particolare va dedicata a Martin Brundle – commentatore di Sky Sports UK – che in griglia di partenza ha avuto il (de)merito di non riconoscere l’italianissimo influencer Gianluca Vacchi e chiedergli in diretta chi fosse e cosa ci facesse lì. Spettacolo puro.
È la F1 del nuovo corso, bellezza! Competizione compressa tra la tecnocrazia di federali puritani e securitari e la realtà virtuale sognata del promoter per vendere di più. Grazie a Dio ci sono ancora uomini come Leclerc e Verstappen che, con il loro talento, illuminano la scena con pura bellezza sportiva.