Critica
06 Marzo 2023

La non esultanza dell'ex, un'ipocrisia tutta moderna

Rispetto può voler dire tutto, ma anche niente.

È un tema che negli ultimi anni divide parecchio chi ama il calcio. Anzi, più esattamente negli ultimi decenni, perché tanto tempo fa il problema non si poneva. Se si segnava alla ex squadra si esultava e basta, in nome del professionismo e del rispetto dei tifosi della squadra del momento. Non c’erano retropensieri. Negli ultimi anni invece, subito dopo aver fatto gol al proprio passato, molti giocatori sentono un bisogno di integrità che non ha riscontri in altri ambiti.

Talvolta sono gli stessi che godono nell’essere sguaiati, nel diventare gli idoli del tifoso peggiore, nell’infierire sugli sconfitti. Poi di fronte a un preciso tipo di situazione, scatta qualcosa. Tutto sta a capire se ciò risponda a un codice di regole non scritte o se non sia il frutto di un calcolo piuttosto preciso. Il dibattito è aperto, anche se la tesi della sincerità appare debole e comunque legata al singolo autore del gol.


UNA STRANA IDEA DI RISPETTO


Se pensassimo che Roberto Boninsegna non amasse l’Inter, allora saremmo pazzi. Bonimba era nerazzurro “inside” ma quando nel 1977 indossò la maglia della Juventus non esitò a farne due a Ivano Bordon. Ed esultò alla grande, perché era un professionista e perché quelle reti spianarono la strada alla Vecchia Signora in direzione scudetto. Nessun tifoso dell’Inter se n’ebbe a male perché tutti riconobbero all’ex beniamino la lealtà di chi stava facendo il proprio lavoro in maniera seria. Solo, vestendo un’altra maglia. Erano altri tempi, dirà qualcuno. Vero fino a un certo punto ma, se preso per vero, allora erano tempi meno ipocriti, meno perbenisti.

I calciatori erano stipendiati per fare la cosa che meglio sapevano fare.

Non erano titolari del proprio cartellino, non dovevano piacere a nessuno se non ai propri datori di lavoro. Salvo eccezioni erano “mercenari” come quelli di oggi, magari senza troppo nascondersi. Ma se poteva esultare Boninsegna per due gol fatti all’Inter (e a lui tutto si poteva dire fuorché mercenario), allora davvero quello non era un problema. Oggi invece siamo di fronte al calciatore-brand, bisognoso di un’immagine positiva a ogni costo perché il mercato è un leviatano che ha occhi ovunque. Non erano uomini tutti d’un pezzo quelli di allora, non sono necessariamente fantocci quelli di oggi. Se cambiano i tempi, cambiano i comportamenti.



Oggi serve un’immagine molto social, anche se – va detto con onestà – il problema dell’esultanza dell’ex precede di parecchi anni l’avvento di Facebook, Instagram e via andare. All’improvviso si è avvertito uno strano timore: il tifoso dell’ex squadra può sentirsi offeso, provocato. Nell’atto di segnare l’autore della rete può suonare polemico, o peggio ancora, ingrato. O irriverente. Dunque, dopo aver “castigato” la vecchia squadra, sono quasi d’obbligo una faccia scura, la postura quasi bloccata, le mani alzate in segno di resa, come a chiedere scusa per l’inevitabile. A fronte di qualcun altro che ha almeno avuto la baldanza/sincerità di seguire l’istinto e di abbandonarsi a una gioia pienamente legittima.


I “BUONI SENTIMENTI”


La domanda è: se fare gol alla propria squadra genera così tanta sofferenza interiore, allora perché segnare? Tutto sommato, meglio non giocare proprio, evitare di scendere in campo per non cadere in tentazione. La cosa strana è che i tifosi sanno in cuor loro che a quegli struggimenti, spesso così teatrali nella forma, non corrisponde altrettanta sostanza. Lo sanno. Eppure, se un proprio ex idolo fa gol e appare felice la prendono male, lo fischiano, magari lo prendono di mira. Il passato viene di colpo cancellato. Viene prima la domanda o l’offerta? Probabilmente l’offerta.

Difficile ricordare chi per primo abbia deciso di non lasciarsi andare in una situazione del genere, ma se il gesto non fosse stato mai amplificato dai media e travisato di senso da radio, tv e giornali, si sarebbe trattato di un episodio isolato. Da anni invece, la non-esultanza appare proprio ciò che si pretende dal calciatore, a prescindere. Certo, se in un ipotetico domani Ciro Immobile dovesse segnare alla Lazio oppure Osimhen al Napoli, ci si dovrebbe aspettare una gioia piuttosto contenuta.

A suo tempo un ipotetico Totti o un immaginario Del Piero raggianti dopo un gol rispettivamente alla Roma o alla Juve avrebbero significato un’anomalia, ma non bisogna per forza arrivare ai grandi nomi per tentare di capire il significato di un comportamento o le recondite finalità (ammesso che tali siano). Oggi ci si sente ex per molto meno, bastano poche apparizioni in un passato più o meno prossimo nella squadra Primavera, il punto è un altro.

A meno di non essere bandiere (brutta parola, ma almeno ci capiamo) di una squadra, la contrizione per un tiro vincente nella porta “sbagliata” appare un’ipocrisia bella e buona. Uno come Christian Vieri, che nel suo tempo ha praticamente frequentato tutto l’arco costituzionale della Serie A, avrebbe in teoria diritto di gioire solo contro tre o quattro squadre, poco di più. E invece, viva la faccia della sincerità, ha sempre esultato senza remore e senza suscitare l’ira della controparte. Perché?

Andiamo al punto della questione: perché è percepito come un calciatore sincero. È l’autenticità quella che sembra prevalere.

Uno come Vieri non ha mai declamato proclami d’amore a questo e quello, ha sempre garantito professionismo serio e il massimo impegno, sia pure a tempo determinato. Non ha mai baciato maglie a sproposito, dunque ha potuto permettersi di andare “a sentimento”. Nessuno gli rinfaccerà un’inesistente incoerenza. Pavel Nedved segnò alla Lazio almeno in un paio di occasioni. Esultanza piena dopo il gol, ma da un aziendalista praticamente dichiarato come lui te lo aspetti e non ti puoi offendere.

Il problema lo rappresentano semmai quelli che creano un’aspettativa poi tradita. Quelli che per esempio baciano la maglia in segno di eterna fedeltà e poi si viene a sapere che al momento del bacio avevano già ratificato per un’altra squadra. Il lato B della medesima doppiezza. Torna alla mente Ruben Sosa: struggimenti a Roma sotto la curva, la firma a Milano, quasi in contemporanea. Forse Batistuta fu più sincero quando segnò alla Fiorentina, chissà.


NÉ IL DIAVOLO NÉ L’ACQUASANTA


Poi ci sono quelli che trascendono il concetto stesso di cuore e lealtà. È il caso di Marco Materazzi, difensore del Perugia, promesso all’Inter in vista della stagione 2001-2002. Nell’ultima stagione in Umbria il futuro difensore della Nazionale campione del Mondo 2006, segna ai nerazzurri sia all’andata sia al ritorno. Sono reti che non impediscono all’Inter di vincere in entrambe le partite, tuttavia in una delle due Materazzi mette in atto una “non-esultanza preventiva”, come a scusarsi in anticipo con i futuri tifosi. Nulla di illegittimo, intendiamoci, solo un gesto un po’ calcolato. Almeno in apparenza poco spontaneo. Furbo, ecco.

In pieno terzo millennio quello della non-esultanza dopo aver segnato alla ex squadra appare quasi un marchio di fabbrica, anzi, più che di una fabbrica, di una società a nome individuale. Fa buona immagine, fa bravo ragazzo, fa professionista coscienzioso. E soprattutto lascia aperta la strada per un eventuale ritorno, hai visto mai. Ci si chiede solo quando agli occhi del target di riferimento un gesto simile sarà diventato definitivamente logoro, parte di un rituale che non colpisce più. Perché il calcio deve essere innanzitutto gioia. Oppure tristezza, ma per aver fatto autogol, non per aver segnato nella porta giusta.

Forse sta al mondo degli spalti, alla critica in generale, agli addetti ai lavori riportare la realtà in asse con il dovere professionale e con un’idea di rispetto non solo formale.

Perché è inutile sbandierare una certa idea di deferenza e di etica quando il più delle volte quell’etica viene tradita negli stessi 90 minuti di gioco o subito dopo. Con l’esultanza becera, con la dichiarazione fuori luogo a fine incontro. O con un gesto variamente interpretabile, come quello di cui abbiamo parlato. Perché, se è vero che va rispettato l’ex tifoso, figuriamoci quanto vada rispettato il tifoso della propria squadra. Quello che stravede per la maglia che l’autore della rete indossa nel momento del “gol imbronciato”. Se non notiamo sfumature di questo tipo, allora è ufficiale: il calcio è diventato solo marketing. Alla faccia della passione.

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Diego Mariottini

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