Ritratti
04 Dicembre 2024

Helmuth Duckadam, consegnato alla leggenda

Eroe per un giorno, eroe per sempre.

Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora” è un detto italiano fortunato e secolare, dall’origine misteriosa. Per alcuni deriva da un antico adagio arabo, per altri nasce nella battaglia del Solstizio. La tesi più accreditata è quella che lo attribuisce erroneamente a Benito Mussolini che, però, l’ha solo ripreso. Ripreso dal repertorio della Grande Guerra nei giorni terrificanti e infiniti per i soldati coinvolti nella disfatta di Caporetto, assieme ad un’altra espressione, entrata nell’immaginario collettivo e persasi nelle pieghe della storia: “Tutti eroi! O il Piave, o tutti accoppati”. Entrambe queste locuzioni nascono dalla penna di Ignazio Pisciotta, generale del Regio Esercito nato a Matera nel 1883.

Ma qual è il sottile filo rosso che collega il generale Pisciotta con il protagonista di questa storia, ovvero il portiere rumeno Helmut Robert Duckadam? Nessuno, se non il fatto che l’esistenza incredibile e pindarica di Duckadam incarna, forse come nessun’altra, l’essenza delle parole che il generale consegnò alla storia.


L’inizio


Helmuth Duckadam nasce in una famiglia di origine tedesca nell’anonima Semlac, Romania, a quattro passi dal confine con l’Ungheria, piccola città persa nella natura silenziosa e pigra del distretto di Arad, nella storica regione dove nacque e visse il conte Vlad III (che ispirò Bram Stocker nella realizzazione del suo capolavoro Dracula): la Transilvania. Muove i primi passi nel mondo del calcio nella compagine della sua città natale, il Constructorul Arad. Sceglie, e viene scelto per lui, il ruolo del portiere. In un’epoca priva dei moderni portieri spilungoni, infatti, la struttura fisica coriacea e nervosa ed i suoi centoottantanove centimetri figurano un’occasione ghiotta per il suo primo allenatore.

È potente e dotato di naturali riflessi gatteschi che gli consentono di esordire nella Divizia A, la prima categoria rumena, con l’UTA Arad, per poi passare nell’82’, seguendo il destino di ogni calciatore talentuoso dell’epoca dei Tricolorii, ad una delle due regine del calcio rumeno: in questo caso la Steaua Bucarest, la squadra dell’esercito rumeno; l’altra è la Dinamo Bucarest, squadra del Ministero dell’Interno, quindi della Securitate, la rinomata e temuta polizia. Il campionato rumeno nel quale gioca Helmuth è un ambiente tossico, specchio della realtà sociale, avendo la dittatura esteso il proprio dominio anche allo sport.

Partite truccate e accordi bilaterali sono all’ordine del giorno, sotto la longa manus dei due figli del “Conducător” Nicolae Ceausescu, Nicu e Valentin.

Quest’ultimo, figlio adottivo del dittatore quando ancora era solo Ministro dell’Agricoltura, “prelevato” tra le migliaia di nuovi orfani causati dalla guerra come esempio di strenuo nazionalismo, è intelligente, estraneo alle dinamiche del regime e appassionato di sport. Diviene sapiente e impegnato burattinaio della Steaua, guidandola al periodo di massimo splendore calcistico, mentre nel tempo libero si concede simpatiche partite sulla terra rossa con il due volte vincitore di Slam Ilie Nastase. Nicu, invece, famigerato per essere uno smodato bevitore e accanito giocatore d’azzardo, sul quale circolano leggende tutt’altro che lusinghiere, pur essendo meno coinvolto del fratello parteggia per la Dinamo.



Duckadam si prende la titolarità della “Stella”, affermandosi come uno dei migliori portieri della Romania, pur non trovando spazio per difendere i pali della nazionale, terreno dello storico portiere della Universitatea Craiova, Silviu Lung. Tutto scorre liscio, per quanto bene possano andare le cose per calciatori di un Paese sotto il regime totalitario del “Comunismo Nazionale”, nel mezzo di un’Europa spaccata dai due blocchi: quello Occidentale degli Stati Uniti e Nato e quello orientale, sotto l’egemonia dell’Unione Sovietica e legato al Patto di Varsavia.

Gli stipendi latitano e, dopo gli allenamenti, i giocatori sono costretti ad un secondo lavoro per sostentarsi.

Eppure la trabordante personalità di Duckadam ha modo di manifestarsi quando, nel corso di una scommessa tra i fratelli Valentin e Nicu su chi vincesse il titolo di capocannoniere del campionato dell’85, Valentin sostiene la candidatura del bomber Piturca mentre Nicu quella di un giovane fuoriclasse dello Sportul Studentesc destinato alla gloria, Gheorghe Hagi. Il portiere rifiuta con il suo tipico garbo l’“invito” a far segnare la squadra avversaria affinché concedessero campo libero a Piturca, inimicandosi individui poco raccomandabili. La sfida, poi, la vince Hagi che, alla tripletta di Piturca, replica con una sestina che fa sorridere, e riflettere.


La Coppa dei Campioni ’85-86


Dopo due anni di transizione, in cui comanda la Dinamo, la Steaua vince il campionato ’84-85 con Duckadam che si fa notare anche in Europa, parando un rigore ad Ubaldo Righetti in un’algida serata di ottobre nella roccaforte dello Stadionul Ghencea. Prodezza tanto bella quanto inutile ai fini del risultato, in quanto la squadra capitolina passa il turno con l’unico gol della doppia contesa, quello di Ciccio Graziani all’Olimpico. La stagione successiva, però, è quella che consegna alla storia il nome di Helmut Duckadam nel palcoscenico più luminoso del mondo, quello della Coppa Campioni, che nel suo format antico – in cui partecipano solo le vincitrici dei singoli campionati europei – consente cavalcate oggi impensabili.

Assistita da una sorte benevola la Steaua, che mai prima ha oltrepassato nella massima competizione europea lo scoglio del primo turno, pesca i danesi del Vejle, che batte agilmente; poi, in rimonta al Ghencea, sconfigge i nobili decaduti del pallone del vecchio continente, gli ungheresi dell’Honved. La buona steaua di quell’anno continua ad accompagnare i Vitezistii (i Velocisti) che ai quarti trovano una clamorosa cenerentola, i finlandesi del Kuusysi, carnefici dell’uscita dei sovietici dello Zenit Leningrado. La gara di andata è una lenta agonia, perché l’ultimo giorno d’inverno dell’86, il 19 marzo, una pioggia torrenziale inonda Bucarest, rovinando il terreno del Ghencea, che viene raccapezzato alla meno peggio dagli elicotteri dell’esercito.

La partita, condizionata dal manto erboso indecente, termina 0-0. Il ritorno è altrettanto brutto nella fredda Lahti: regna un equilibrio sonnacchioso e nevrotico fino al minuto ottantasei, quando Boloni sfrutta un errore difensivo dei finlandesi, dribbla e serve un pallone d’oro al numero 9, il già citato Victor Piturca, che insacca. Dissipatesi le tempeste degli albori della primavera, lo Stadionul Ghencea torna ad infiammarsi come l’inferno e a ruggire forte al punto da spingere i Ros-Albastri (i Rossoblù) verso un’isperata rimonta contro l’Anderlecht, super favoriti della vigilia dopo aver giustiziato ai quarti il Bayern Monaco. Tre a zero tondo e clamorosa finale raggiunta.


La finale


Se vero è che la fortuna aiuta gli audaci, la vita non è come le fiabe e prima o poi bisogna fare i conti con una realtà spregiudicata e cinica. Questo è il pensiero di tutti i quotidiani sportivi spagnoli, in particolare quelli catalani, con il Mundo Deportivo in prima fila, che a tratti sbeffeggia la compagine dei Vitezistii, affermando che “la formazione di Venables gioca un calcio offensivo e raffinato che ha la possibilità di sbarazzarsi facilmente dell’arrocco difensivo dei rumeni”. Eppure, negli uffici di Terry Venables c’è una confusa preoccupazione. Sono tempi diversi, lontani da quelli moderni, come direbbe Chaplin, e per lo staff del Barcellona risulta particolarmente complesso ottenere videocassette della squadra rivale, ai più sconosciuta.

Presto in Catalogna avrebbero imparato a conoscere la Steaua e soprattutto il suo portiere: Helmut Robert Duckadam

Il calcio rumeno è un mondo diverso, (non) guardato con un certo disprezzo e, all’inizio della competizione, a nessuno viene in mente di considerare la Steaua come una contendente per la coppa dalle grandi orecchie. Diverso è il discorso per i rumeni che, grazie alla passione e alle conoscenze di vari diplomatici sparsi per la Spagna, si accaparrano VHS di varie partite dei Blaugrana. Non figura tra le VHS la semifinale disputata pochi giorni prima contro il Goteborg, dove il Barca pareggia il 3-0 dell’andata a favore degli svedesi e vince alla lotteria dagli 11 metri grazie ad un pararigori di tutto rispetto, Francisco Javier Gonzalez Urruticoechea, in arte Urruti. Il tutto per il dispiacere di Duckadam, già pronto a studiare i vari rigoristi spagnoli.

Non solo, il dispiacere colpisce anche il gigante del calcio rumeno, l’allenatore della Steaua Hemerich Jenei, e il suo assistente Iordanescu (ritorerà nella storia), che mentre allenano la squadra vedono scorrazzare per il campo militari, vestiti in modo stravagante, impegnati a misurare le radiazioni. Il reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl è scoppiato il 26 aprile e l’Europa, specialmente quella dell’est, è piombata di colpo, irreversibilmente, nella paura dei devastanti effetti del nucleare.

“Ricevevo consigli di ogni genere: non prendere la palla vicino al petto. Evita di tuffarti. Per evitare le radiazioni. Poi siamo partiti per Siviglia due giorni prima della partita. Abbiamo portato con noi cibo, champagne e un cuoco”. 

Si gioca il 7 maggio, in casa degli spagnoli, non a Barcellona bensì a Siviglia, al Ramon Sanchez-Pizjuàn, gremito di 60 mila sostenitori Blaugrana che strillano e acclamano i propri beniamini, sovrastando i trecento tifosi della Steaua che, come gli Spartani contro il gargantuesco esercito persiano di Serse, non indietreggiano. Quando l’arbitro Michel Vautrot fischia l’inizio della sfida tutti sono convinti dell’esito, eccetto i 22 in campo: i rumeni disposti ad un catenaccio ultradifensivo, disposti a 90 minuti di abnegazione e sacrificio, sono pronti a ribaltare il banco; gli spagnoli, dall’altra parte, hanno tutto da perdere: schiacciati dai favori del pronostico, dalla possibilità della prima Coppa Campioni Blaugrana, dal clima torrido da corrida, si trovano di fronte una squadra sconosciuta e mai affrontata prima.

La partita passa lenta e noiosa. Uno stillicidio senza alcuna emozione che termina anticipatamente, al settantesimo, quando il machiavellico Jenei, allenatore dei rumeni e uomo di raffinata acutezza, manda in campo il suo vice, Anghel Iordanescu, ritirato dal calcio giocato l’anno precedente, per gestire la partita e – c’è chi afferma – aumentare la pressione psicologica sugli avversari. All’ingresso in campo a sorpesa del numero 15, vecchia stellla oramai cadente, che gioca il tempo di un meraviglioso dribbling e un filtrante illuminante, gli spagnoli si eclissano. La contesa scorre inesorabile sui binari inesorabili e roccamboleschi dei calci di rigore.


I rigori


Un boato estasiato accoglie l’intercetto di Urruti su Majerau, che torna verso il centrocampo affranto. “Ero rimasto in campo 120 minuti solo perché tiravo bene i rigori” dirà anni dopo, con lo sguardo di chi non si dà pace ma non si biasima, perché in quella folle corrida anche avviarsi verso il dischetto pesa come un macigno. Tocca ora al primo rigore del Barca con Capitan Alexanko che, come quelli che seguono, tentenna un secondo dinnanzi al portiere in divisa verde, mai operoso prima di quel momento. È un uomo alto, vitreo nello sguardo dilatato e nella scultorea posizione eretta, con le braccia tese parallele ai fianchi. Respira lentamente con la bocca, ingurgitata dai grandi baffi marroni, che si socchiude appena come se boccheggiasse. Si tuffa a destra. Il Sanchez-Pizjuàn sospira, triste.

“Il primo è sempre il rigore più difficile, anche se è stato il rigore che ogni portiere sogna: a mezz’altezza, non troppo potente. Ma se mi fossi tuffato dalla parte sbagliata tutti avrebbero parlato dei nervi d’acciaio di Alexanko”.

Due rigori, 0-0. Si riparte ed esplode ancora il pubblico Blaugrana: Boloni si fa intercettare dal dischetto e, in una crisi isterica, quando il pallone gli ritorna sul sinistro lo scaglia con animalesca violenza verso la rete; Urruti, in un lampo di deformazione professionale, manca di gioire per il rigore negato e si getta per parare anche la respinta. Avanti il prossimo. Tiro e… la fiuamana geme, straziata, da quel gigante rumeno sulle ginocchia, felino, che si tuffa ancora sulla destra e para anche il rigore di Pedraza. Dopo 120 minuti e 4 rigori, il risultato è ancorato allo 0-0.

A questo punto il numero 7 Marius Lacatus fa quello che ogni essere senziente in quell’istante farebbe: scaraventa uno scaldabagno forte e centrale, traversa-gol, che trafigge Urruti. 1-0. Tocca al Pichi Alonso. Duckadam lo attende; ora consapevole e sicuro, si piega sulle ginocchia in modo vistoso, come fosse una papera.

“Deve essersi detto che avrei cambiato lato, visto che mi ero tuffato due volte a destra. Perciò ho deciso di tuffarmi a destra per la terza volta e la palla mi ha colpito sul petto. È stato il più facile dei quattro”.

Il numero 1 rumeno blocca il pallone, incredulo. Lo stringe come fosse un tesoro. Lo calcia verso gli spalti, curvo ed ebbro di una contentezza puerile e atavica che per una frazione di secondo lo rende nuovamente il bambino nato a Semlac, nelle verde e pigra natura rumena, spezzando l’araldica postura che lo contraddingue. Si ricompone, scusandosi. Poi l’incredulità, che solo una profonda gioia può regalare: si inginocchia, quasi in posizione fetale. Bambino, ancora una volta, che in una piacevole serata andalusa si chiede curioso cosa sia la realtà, e cosa il sogno, indistinguibili per la prima volta.

Una notte irripetibile – e mai ripetuta, neanche per un portiere

L’inerzia è volta in direzione di Bucarest. Balint spiazza Urruti mentre, accovacciato sullo sfondo, Duckadam con la testa tra le gambe, imperterrito, scuote il capo, come se temesse di essere svegliato da una serata la cui bellezza brilla al punto da accecare, spaesare. Come se, nel realizzarsi, divenisse già ricordo. Il quarto rigore di Alonso, Marcos questa volta, nonno del Marcos di oggi ex Barca e Chelsea, è solo il punto esclamativo che consegna Helmuth Duckadam alla storia come il primo, e finora unico, portiere a parare tutti i rigori di una serie in una finale di Coppa Campioni/Champions League. Insomma, lo scolpisce nella storia del calcio europeo, per sempre. Quattro su quattro.

La Steaua è proclamata campione d’Europa. È la prima squadra oltre la cortina a fregiarsi del massimo titolo europeo, grazie ad un uomo mite e buono, mal visto dai vertici del suo governo, amato dal popolo, re per una notte.

Penso che credesse che ormai mi sarei sempre tuffato a destra. Se guardate le immagini vi accorgerete di tutti i giochetti che gli ho fatto. Gli ho lasciato pensare che mi buttassi a sinistra, poi mentre prendeva la rincorsa ho fatto un movimento impercettibile con la gamba verso destra, così lui ha pensato che mi stessi tuffando ancora a destra e ha tirato debolmente dall’altra parte. E invece mi sono buttato a sinistra. Spiegato ora sembra facile, ma provate a farlo davanti a 70 mila persone”.

Cosa c’è dopo il giorno da leoni che passa una sola volta nella vita? Nessuno lo sa. Per Duckadam gli abbracci dei suoi compagni tra le lacrime, una fresca baldoria andalusa per i due giorni successivi, lo champagne portato da casa, il giubilo e l’eterna gratitudine dei tifosi per i quai sarà l’Eroul de la Siviglia, il premio di calciatore rumeno dell’anno, l’ostracismo dei Ceausescu, l’ottavo posto al pallone d’oro e l’interessamento dello United di Ferguson. Parebbe esserci all’orizzonte della sua esistenza un futuro radioso, che ribalti le prospettive e consenta a questo eroe baffuto e silenzioso venuto dal nulla di rivivere la gloria ancora e ancora.

Invece no. La finale di Coppa Campioni dell’86’ è l’ultima partita ad alti livelli e con la maglia della Steaua di Bucarest del numero 1. La coppa dalle grandi orecchie l’ultimo trofeo con i Ros-Albastri. Anzi, penultimo. L’ultimo è una vetusta ARO 4X4, raffazzonata con ricambi di altre vetture, donata dal regime per celebrare gli eroi di coppa, in sostituzione della falsa promessa di fumanti motociclette.



La caduta


La fine della carriera di Duckadam, solo sette mesi dopo la vittoria di Siviglia, si dice sia un mistero ma forse è più semplice di quanto si pensi. Secondo la leggenda le mani d’oro di Duckadam vengono martoriate dalla Securitate, fino a rendergli impossibile tornare a parare, per ordine dell’irascibile Nicu Ceausescu; la cosa perché Duckadam non avrebbe rinunciato ad una Mercedes regalatagli da Real Madrid, rivale del Barcellona o, addirittura da Re Juan Carlos I in persona, come ringraziamento per aver scongiurato la vittoria dei nemici catalani. Secondo un’altra tesi, la Securitate gli avrebbe sparato alle mani durante una battuta di caccia.

La realtà, come dichiarato dal portiere in più interviste, definendo ridicole tali dicerie, è che viene colpito da un’embolia ascellare durante partitella tra amici, avvertendo un dolore terribile al braccio poggiato al suolo.

Il medico gli suggerisce un immediato intervento, precario e complesso, che viene realizzato a Bucarest dal generale Vasile Candea, capo del reparto di chirurgia cardiovascolare dell’Ospedale Militare, richiamato appositamente per l’occasione dal congedo militare. L’aneurisma ascellare, che interessa l’arteria che parte dall’aorta, passa per il collo e scende fino al braccio, lo perseguita. Seguono altri tre interventi: 1988, 2008 e 2012. Ritorna per una manciata di partite nel ’91 ma è un’esperienza fugace, malinconica. Abbandonato dal regime, che smette di pagarlo perché non più calciatore, si reinventa agente di dogana, proprio al confine tra Romania e Ungheria, dov’è nato.

Non finisce così. C’è un principio di lieto fine, come in ogni agrodolce novella che si rispetti, nella vita di un uomo che va oltre lo sport. Dopo la caduta del regime, il popolo gli tributa gli onori dovuti e mai fino in fondo attuati. Svolge la carica di consigliere per il Ministero dello Sport, ricopre la carica di Presidente della Steaua, si trasferisce negli Stati Uniti e poi ritorna a casa, a Bucarest, dove muore il 2 dicembre 2024.

Una vita che finisce. La vita di un eroe che sintetizza perfettamente la frase del generale Pisciotta, passando per l’intervento salvifico di un altro generale, Candea, e conclusasi nel ricordo sbiadito di persone dai capelli bianchi, tifosi e non della Steaua, alle quali brillano ancora gli occhi, ricordando il suo nome e quella assurda notte di maggio del 1986. Una notte in cui un uomo qualunque, alto, dal volto angoloso e virile, le mani grandi, il cuore generoso e gli occhi sinceri, ha tramandato un insegnamento che travalica il tempo e lo sport. Nella mediocrità di cento anni da pecora, tutti possiamo essere leoni per un giorno. D’altronde, se si è eroi per un giorno, lo si è per sempre. 

Ti potrebbe interessare

Mircea Lucescu e la libertà dagli schemi
Calcio
Alberto Maresca
16 Novembre 2020

Mircea Lucescu e la libertà dagli schemi

Come la cultura rom ha plasmato l'allenatore.
Mazurkiewicz, il gatto con gli scarpini
Ritratti
Diego Mariottini
02 Gennaio 2022

Mazurkiewicz, il gatto con gli scarpini

Il più grande portiere nella storia dell'Uruguay.
Marco Silvestri e la sottile arte della provocazione
Papelitos
Paolo Pollo
10 Novembre 2020

Marco Silvestri e la sottile arte della provocazione

Come il portiere del Verona ha fregato sua maestà Zlatan.
Il portiere è un uomo solo
Calcio
Gennaro Chiappinelli
15 Ottobre 2020

Il portiere è un uomo solo

Metafisica di un ruolo da pazzi e antagonisti.
Curva Est
Recensioni
Gezim Qadraku
10 Maggio 2018

Curva Est

Un viaggio calcistico nella cultura dei Balcani.