Nick ormai è diventata la parodia di se stesso.
Una ventina d’anni fa, saliva sul palco di “Zelig” il comico foggiano Pino Campagna. Sciarpa al collo, capigliatura tamarra e un telefonino in mano, impersonava un genitore alla prese con gli strani slogan dei figli. La sua battuta fece ridere la prima volta. Sorridere la seconda. Chiedere che Al Qaeda sganciasse una bomba su quello che, tempo prima, era ancora un signor show, la terza. Prendendo in prestito questo preistorico esempio, la saga di tweet e dichiarazioni di Nick Kyrgios sul caso clostebol-Jannik Sinner sta raggiungendo il livello degli sketch che le tv ci propinano ogni giorno, tra i “The Jackal” e “Lol”. Patetici. Stucchevoli. Inutili.
L’australiano, grande appassionato nell’arte di buttare il proprio talento, pare aver intrapreso la strada del santone moralista. Figura che, negli ultimi tempi e grazie al mondo social, ha preso piede con veemenza. Senza citare per l’ennesima volta mediocri ex sportivi che si riciclano in boriosi saperlunghisti, non possiamo che prendere atto della giravolta estrema, e un pochino fuori luogo, del fu ragazzo prodigio. Appena convocato dal capitano di Coppa Davis Hewitt per i prossimi impegni in nazionale, il bad boy di un remoto passato ha deciso di trasformarsi in una sorta di “cattivo maestro” pentito. Di quelli che, dal pulpito di una millantata esperienza, raccontano ai ragazzini cosa è bene e cosa è male.
Diciamoci la verità. Tra tutti i ruoli che può interpretare, resta difficile credere a un Kyrgios impegnato in reprimende bigotte, magari per un pugno di click.
«Kyrgios è uno dei tennisti più talentuosi che abbia mai visto. La sua magia è pari a quella dei Big 3. Però adesso è diventato un influencer, vive per i like e la sezione commenti. Non sopporto la sua ipocrisia nel giudicare le persone. Lui è chiaramente il critico più esplicito di Sinner in questo momento. Sì, è vero che Sinner è risultato positivo a un test antidoping, ed è un fatto per rimarrà per sempre. Ora però si può prendere la decisione di esaminare il contesto e comprendere che ci sono casi e casi diversi tra loro, invece Kyrgios non lo fa», ha sostenuto ad esempio Andy Roddick.
E ancora: «Lui si comporta mettendo emoji di una siringa nei commenti di un ragazzino di 16 anni (Cruz Hewitt n.d.R.). Se Sinner rimarrà sempre colui che è risultato positivo a due test antidoping, lui sarà sempre quello che ha aggredito la propria ragazza. In quel caso, però, voleva che la gente capisse il suo contesto: pura ipocrisia». Difficile in questo caso, anche per noi che Kyrgios lo abbiamo sempre difeso, non essere d’accordo con l’ex tennista americano.
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Mettendo da parte le ragioni legali, su una vicenda ancora aperta, e tralasciando simpatie e antipatie per il numero 1 ATP, il finalista di Wimbledon ‘22 si è lanciato a capofitto in una battaglia che, onestamente, fatichiamo a comprendere. Quelle che, all’inizio, sembravano opinioni discutibili ma rispettabili, sono diventate valanghe di post che assomigliano più a una diatriba tra teenager sfigati che tra atleti professionisti. Questo, va detto, senza che Sinner al momento sia intervenuto nella malmostosa agorà social.
Le provocazioni e i richiami alla querelle doping della scorsa primavera non si contano più. Qualche collega ha detto la sua, chi in modo netto e chi da paraculo. Nick è partito con la stessa forza dei suoi ace, ma ora rischia di andare a schiantarsi contro rete. Complicato pensare che la campagna per la sua rentreè nel tennis sia rappresentata da una raffica di pensierini adolescenziali pseudo moralisti. I quali risultano ancor più pietosi se si pensa che, al termine degli Australian Open dello scorso anno, i due si erano scambiati carezze e complimenti su Eurosport.
Riposizionamento? Difficile credere a un (finto?) ribelle, non sempre in pieno e lucido controllo di sé, che si trasforma in un profeta del moralismo a buon mercato.
Più semplice immaginare un ultimo, disperato, all in per salvare, se non la carriera, almeno il ricordo di un ragazzo che poteva essere molto ed è divenuto poco. Non un Safin trionfante in due Slam che si accompagnava a uno stuolo di modelle da capogiro. Non un Ivanisevic cavallo pazzo che vinceva Wimbledon da qualificato. Non un McEnroe che sfasciava racchette e alzava trofei a un ritmo forsennato. Kyrgios è rimasto sul guado. Dentro una generazione, quella dei Dimitrov e dei Thiem, che ha raccolto una semina scarsa, rispetto al loro talento.
Colpa dei Fantastici Quattro o di chissà cosa, il tennista aussie non sembra starci. Vuole dire la sua. Accodandosi ai tanti perbenisti che sono diventati (ahimè) qualcuno, grazie alle tastiere degli smartphone e non alle loro imprese sportive. Un delitto, per noi romantici controcorrente, innamorati dei gesti atletici e molto meno di ciò che li contorna.
Amico Brasile, non posso che sottoscrivere il tuo virgolettato. “Non c’è nulla di più stucchevole di una rockstar che fa la morale” – lui sostiene di avercela innanzitutto coi Maneskin, ma il principio è generale. Un peccato, per quel teenager figlio di una principessa malese, che un tempo voleva saltare a canestro con la canotta dei Celtics. Da papabile next big thing a maniaco di tweener sul campo e tweet sul telefonino. Giocate fine a se stesse, come una polemica inutile che ha fatto scivolare Kyrgios nel calderone dei tanti maestri di un puritanesimo urticante, dei quali continuiamo a non sentire il bisogno.