Fu il primo straniero a vestire la maglia del Milan dopo la riapertura delle frontiere calcistiche italiane decisa nel 1980. Joe Jordan arrivò all’aeroporto di Linate, accolto da un migliaio di tifosi entusiasti e da uno sfolgorio di bandiere rossonere, sciarpe e cori di giubilo. Era il 3 luglio ’81. Sembrò commosso, lo scozzese, uscendo dall’area arrivi, accompagnato dalla moglie Judith e dalla figlia Lucy. Non si aspettava tutto quell’affetto. I tifosi gli mostrarono uno striscione: “Welcome, Big Joe”. Nella prima conferenza stampa, nella sede societaria di via Turati 3, l’attaccante mise subito in evidenza alcuni aspetti del suo carattere:
“Non sono avaro e non bevo, non mi piacciono la baldoria e le sbronze”.
Il suo ingaggio era stato un ripiego dopo il flop dell’affare Zico (con la pessima figura rimediata in Brasile dai dirigenti rossoneri, Rivera in testa) e la rinuncia del belga Coulemans che le cronache del tempo associarono alla volontà della madre ma che, in realtà, derivò da ragioni meramente pecuniarie. Il Milan era reduce da un’annata nel purgatorio della B, condannato a girovagare nella provincia italiana per decisione della Giustizia Sportiva, in seguito allo scandalo del calcioscommesse che spedì tra i cadetti anche la Lazio.
Alla presidenza, data l’inibizione di Felice Colombo, era stato nominato da circa un anno Gaetano Morazzoni, giovane parlamentare della Democrazia Cristiana. La situazione societaria si presentava a dir poco confusa, con due vicepresidenti (Rivera e Angelo Colombo) e Sandro Vitali nel ruolo di uomo-mercato. Le dinamiche che portarono il quasi trentenne Jordan a Milano furono alquanto singolari. Tony Damascelli, inviato de Il Giornale, incontrò lo scozzese sugli spalti di Anfield Road, durante la semifinale d’andata di Coppa Campioni tra Liverpool e Bayern Monaco.
Gli chiese cosa ne pensasse di un eventuale trasferimento in Italia, convinto che uno come lo scozzese del Manchester United sarebbe stato utile al Milan ormai vicinissimo al ritorno in A. Il nome di Jordan cominciò a spuntare nelle cronache del calcio-mercato. La trattativa con i Red Devils fu veloce e poche settimane dopo giunse l’annuncio ufficiale della società rossonera: accordo raggiunto, 700 milioni di lire al club di provenienza e mezzo miliardo all’anno d’ingaggio per il giocatore.
La stampa inglese rispose con astio al trasferimento in Italia dello scozzese. Dalle pagine del Daily Star, Denis Law, giocatore che nel Torino, venti anni prima, conobbe la popolarità soprattutto per situazioni extracalcistiche, invitò Jordan a guardarsi bene dai difensori italiani.
“Imparerai ad avere occhi anche sulle spalle, avrai sempre tre o quattro difensori pronti ad intervenire. Dovrai stare attento a non perdere la testa o rischierai di essere squalificato o cacciato via. Tua moglie farebbe bene ad abituarsi all’idea che per almeno quattro giorni alla settimana sarà come se non fosse sposata. Agli italiani non garba che i loro giocatori abbiano rapporti sessuali nei giorni che precedono e seguono la partita”. (Denis Law)
L’infanzia di Joe non era stata facile. A Cleland, il borgo d’origine dei suoi genitori, non c’era neanche l’ospedale. Per questo, la signora Jordan aveva dovuto partorire nella vicina Carluke, il 15 dicembre 1951. Cleland, a sud di Glasgow, era un piccolo villaggio di minatori del Lanarkshire. Acciaio, carbone, vita dura e sacrifici costituirono la quotidianità del piccolo Joe, esile ma con una grande voglia di giocare a football. Il padre, difensore dilettante, lo spinse sin da piccolo a tirare calci ad un pallone. Da mancino vero, di mano e di piede, venne schierato come mezzala sinistra nella squadra oratoriale del Saint Mary. Nel 1966 entrò nelle giovanili del Blantyre Victoria prima di passare al Greenock Morton.
Quattro anni dopo arrivò per Jordan la svolta della sua carriera: l’approdo al Leeds, club che sborsò 15 mila sterline per il suo cartellino. Don Revie, leggenda del calcio britannico, lo sottopose a dure sedute di allenamento, trasformandolo in centravanti di tutto rispetto. Il soprannome se lo conquistò sul rettangolo di gioco, dopo aver perso gli incisivi superiori tentando di colpire di testa un pallone a 30 centimetri da terra e finendo con la faccia sul piede di un avversario. In campo non usava mai la dentiera e quell’espressione facciale gli valse l’appellativo di “squalo”.
Nella sua scheda personale, alla voce “segni caratteriali”, venne inserita la parola coraggio. La mancanza dei denti lo accostava a Nobby Stiles, mediano dell’Inghilterra campione del mondo che incuteva timore all’avversario per via della sua bocca sdentata. Gli inizi al Leeds non furono facili: Jordan divenne titolare dopo due anni. Giocò contro il Milan nella finale di Coppa delle Coppe disputata a Salonicco il 16 maggio ’73. Nel piccolo stadio greco fu battaglia durissima con i rossoneri di Rocco. Dopo tre minuti, Chiarugi trovò una traiettoria diabolica su calcio piazzato, sbloccando il risultato.
Il Milan si ritirò a difesa del vantaggio, il portiere Vecchi divenne un baluardo insuperabile, neutralizzando anche un paio di tentativi di Jordan. I rossoneri beneficiarono, inoltre, di alcune decisioni favorevoli dell’arbitro greco Michas, errori che mandarono su tutte le furie il Leeds. Finì quasi in rissa, con il direttore di gara costretto a lasciare il camposcortato dalla polizia ellenica. In tribuna stampa, tra giornalisti italiani e britannici volarono insulti reciproci. I giornali inglesi, già scatenati dopo gli arbitraggi di Schulenburg e Lobo nelle semifinali di Coppa Campioni tra Derby County e Juventus, parlarono di “corruzione”. Per Michas fu quella l’ultima partita internazionale.
Nello stesso anno, arrivò la prima chiamata di Jordan in nazionale scozzese. Un battesimo di fuoco: a Wembley contro l’Inghilterra. Lo Squalo era ormai una certezza del Leeds che, nella stagione 1973/74, si laureò campione d’Inghilterra con una serie di 29 gare consecutive senza sconfitte. Jordan risultò tra i giocatori con il rendimento più alto. La ciliegina sulla torta fu la convocazione alla fase finale dei Mondiali di Germania. La Scozia uscì al primo turno ma Joe firmò due reti in tre partite. Con il Leeds sfiorò anche la Coppa Campioni, sfumata nella finale di Parigi contro il Bayern Monaco, favorito da due sviste arbitrali.
Tre anni dopo si rivelò decisivo nel girone di qualificazione ai Mondiali ‘78. Nella sfida contro il Galles, lo Squalo toccò la palla con la mano in area avversaria ma l’arbitro assegnò clamorosamente il penalty alla Scozia che così eliminò i gallesi. Anche in Argentina, gli scozzesi uscirono al primo turno. Jordan segnò un gol contro il Perù. Dopo il Mondiale arrivò il clamoroso trasferimento al Manchester United per 350 mila sterline. I tifosi del Leeds gridarono al tradimento. Dave Sexton, manager dei Red Devils, lo definì il “classico giocatore che mai si dà per vinto”. Garry Birtles, ex attaccante del Nottingham Forest, descrisse Jordan come “un altruista, esempio di uomo-squadra e combattente senza paura”.
Parole che rassicurarono l’allenatore milanista Gigi Radice che dei britannici non aveva un buon ricordo, pensando all’esperienza negativa di Greaves nel Milan degli anni 60. “Ho pochi denti, bastano per azzannare l’Inter”, disse l’attaccante scozzese nei primi giorni di preparazione estiva ad Asiago, aggiungendo di sentirsi contento di avere per allenatore Radice, deciso come lui e con cui l’intesa sarebbe stata più facile. I tifosi milanisti gli si affezionarono subito, desiderosi di tornare ai vertici del calcio italiano.
In allenamento non si lamentava mai, lavorando con estrema serietà e applicazione, cercando di mettere in atto i consigli dell’allenatore. Da cattolico praticante, Jordan chiese soltanto il permesso per andare a messa la domenica. I suoi compagni di tavolo furono Monzon Novellino, Aldo Maldera, Dustin Antonelli (il giocatore con cui legò più degli altri) e Ruben Buriani. Tra una portata e l’altra, Novellino gli parlava in stretto dialetto napoletano, pronosticandogli gol a grappoli in campionato.
A differenza di molti suoi connazionali, Joe odiava il whisky: solo un bicchiere di vino a tavola e una grande predilezione per la cucina del Belpaese.
Il suo approccio con la lingua italiana fu positivo grazie all’interprete Franco Fougier. Le premesse della vigilia trovarono conferma con il buon rendimento dello scozzese nella prima fase di Coppa Italia. Dopo aver firmato una doppietta contro il Pescara, all’esordio ufficiale a San Siro, lo scozzese lasciò il segno nel derby d’inizio settembre ’81. Davanti a 80 mila spettatori segnò una rete con un colpo di testa che s’insaccò alla destra del portiere interista Bordon.
L’esultanza sotto la Curva Sud, con lo Squalo abbracciato da Buriani e Collovati, è ancora oggi una delle icone a più alto tasso di milanismo dei primi anni 80. Lo stadio sembrò una polveriera rossonera. Anche Radice entrò in campo ad abbracciare i suoi giocatori. Fu in quel momento che Jordan entrò nel cuore dei tifosi. L’interista Facchetti si disse “impressionato dal giocatore scozzese, davvero formidabile con quei suoi stacchi aerei”.
La stracittadina di coppa, tuttavia, mostrò i prodromi di quella che sarebbe stata un’annata negativa per il diavolo. Allo scadere, il 2-2 di Beppe Bergomi qualificò l’Inter, con grande rammarico del Milan che due minuti prima aveva fallito con Buriani l’occasione per chiudere la partita. Negli spogliatoi, i complimenti furono tutti per Joe, autore di un’ottima prestazione. Rivera predisse una grande annata dello Squalo:
“Non mi aspettavo un Jordan così forte, si è rivelato un acquisto azzeccato. Può essere il goleador della serie A”.
Pochi giorni dopo, l’attaccante rossonero firmò, contro la Svezia, il gol che qualificò la Scozia al Mondiale ’82. Una rete ricordata ancora oggi dai tifosi della Tartan Army. L’attaccante milanista andrà in Spagna per la fase finale iridata, riuscendo ad andare in rete contro l’Unione Sovietica nell’unica partita in cui venne schierato in campo. La stagione 1981/82 del Milan, dopo un avvio positivo, prese una piega imprevista, con il diavolo scivolato progressivamente verso il fondo della classifica. Jordan trovò la via del gol solo una volta dopo otto partite, a San Siro contro il modesto Como. Finì spesso in panchina e la sintonia con Radice si mantenne a livelli bassi.
Subentrarono anche fastidi muscolari che ne limitarono notevolmente la condizione atletica. Il suo sguardo si fece malinconico: uno Squalo trasformatosi clamorosamente in triglia, bloccato dalla mediocrità che avviluppò la stagione del Milan, impantanato nelle sabbie mobili della zona retrocessione e finito all’ultimo posto della classifica il 22 novembre ‘81. A nulla servì il buon finale. Jordan tornò al gol (su rigore) il 12 maggio ’82 contro i cecoslovacchi del Vitkovice, nella gara che assegnò ai rossoneri la Mitropa Cup. I tifosi, encomiabili per affetto, dedizione e vicinanza alla causa milanista, intonarono a fine gara un coro commovente:
“Resteremo in serie A”.
Quattro giorni dopo, però, la straordinaria rimonta salvezza di Cesena, con lo scozzese autore del primo gol, venne vanificata dal pari in extremis del genoano Faccenda a Napoli, tanto chiacchierato per le dinamiche che lo precedettero (con il pastrocchio in fase di rinvio del portiere partenopeo Castellini). Il 16 maggio ’82 il Milan tornò in B, bocciato dal verdetto del campo. L’avvocato interista Prisco coniò una frase rimasta nella storia degli sfottò: la retrocessione gratis dopo quella a pagamento. Fu l’epilogo di una stagione di impressionante mediocrità della squadra rossonera malgrado una rosa di tutto rispetto.
La lunga assenza per motivi di salute di Franco Baresi, la scarsa vena realizzativa di Jordan e Antonelli (appena 6 gol in due) e un centrocampo troppo lento finirono per imbrigliare il diavolo a cui non bastò lo scatto d’orgoglio finale contro Genoa, Avellino e Cesena per evitare la retrocessione. Il Milan fu la squadra con il minor numero di reti segnate in casa: appena 9 in 15 partite. Dal repulisti, deciso da Giuseppe Farina, diventato presidente nel gennaio ‘82, venne escluso lo scozzese, inserito nei piani del nuovo allenatore rossonero, Ilario Castagner, chiamato a traghettare il Milan dalla B alla massima serie.
Il tecnico, vicecampione d’Italia nel ’79 con il Perugia, seppe valorizzare le caratteristiche di Jordan: l’opportunismo, il suo essere battagliero e la capacità di giocare la palla con intelligenza pur non potendo più essere veloce e scattante come ai tempi del Leeds.
In coppia con Aldo Serena, lo Squalo si scrollò di dosso la mediocrità dell’annata precedente, segnando numerose reti e convincendo anche come uomo assist in area. Joe non temeva il gioco duro della cadetteria, anzi gli ricordava quello scozzese e inglese dove aveva lasciato evidenti tracce positive. Del nuovo allenatore apprezzava il carattere sereno e le idee tattiche con schemi difensivi prettamente italiani e dinamiche offensive simili alle compagini britanniche.
A Campobasso, dove un’intera città andò ad assistere alla partita tra molisani e rossoneri, fu Jordan a sbloccare una matassa complicata, aprendo la strada alla vittoria del Milan. A fine stagione, tra campionato e Coppa Italia, lo Squalo fu il miglior goleador milanista a pari merito con Serena (14 reti). Gli venne tributato un lungo applauso la sera della sua ultima partita in rossonero, nel derby del Mundialito ’83. Al suo posto la società ingaggiò l’inglese Luther Blissett.
Nella mente dei tifosi, che in quegli anni di “Piccolo Diavolo” rimasero fedeli al credo calcistico rossonero, riaffiora quella domenica d’inizio ottobre ’81 in cui comparve a San Siro lo striscione inneggiante a Joe Jordan. Recava la scritta: “Shark kicks again for us”. Venne preparato in Piazza Sraffa, nei pressi della Bocconi (zona Porta Romana), un quartiere che in quel periodo registrava un’alta presenza rossonera, come raccontato dalla Banda Casciavit. La vernice, passata sotto lo striscione, rimase in bella vista per diverse settimane sul pavimento davanti al sagrato della Chiesa di San Ferdinando dove parecchi tifosi passavano le giornate.
Sveglia alle 5 del mattino per arrivare puntuali alle riunioni dei “Milan Clubs” che a quel tempo si svolgevano domenica alle 9,30. Dall’ingresso Alfieri si passava con gli striscioni per raggiungere il settore dei popolari.
“Squalo, segna ancora per noi” divenne il motto che risuonò spesso a San Siro per incitare Jordan, in un periodo gramo di gioie per il Milan ma pregno di passione vera, quella che prescinde da nomi e risultati e che non fa provare vergogna per la conquista della Coppa dell’Europa Centrale. Storie di calcio andato dove la dimensione umana era ancora preponderante. La sua esperienza nel football italiano, conclusasi nel 1984 dopo una stagione con il Verona di Osvaldo Bagnoli, Joe Jordan la descriverà nel libro Behind the dream, parlando molto positivamente di quegli anni, delle gite del lunedì con la famiglia e delle cene milanesi con spaghetti alle vongole e vino soave.