I salentini tornano, meritatamente, in Serie A.
2 agosto 2020. Lecce-Parma 3-4. Le lacrime del Via del Mare inaridiscono la terra rossa, quella sulle maglie degli uomini di Fabio Liverani. Dopo uno scontro thrilling, giocato curva a curva contro il Genoa di Preziosi, la meritata salvezza, con permanenza in Serie A, non arriva: sul rettilineo della notte finale è retrocessione, una delle più ingiuste dell’ultimo decennio. A perire è la squadra che aveva lasciato l’amaro in gola alla Juve di Sarri, all’Inter di Conte, al Milan di Pioli, alla Lazio di Simone Inzaghi, per intenderci.
20 maggio 2021. Lecce-Venezia 1-1. Le lacrime del Via del Mare corrodono la pietra leccese, quella sulle maglie degli uomini di Eugenio Corini. A dieci minuti dalla fine, sul piede destro del capitano, Marco Mancosu, il pallone del 2-1. Undici metri separano il Salento dalla finale dei playoff, dalla sentenza, che profuma di massima serie. Sembra il logico lieto fine di una rimonta entusiasmante, che ha visto i giallorossi passare dal precipizio della Serie C al volo della A. E poi, tocca proprio a Mancosu, un guerriero silenzioso che combatte contro il cancro, decidendo di scendere comunque sul tappeto verde. Ma non si tratta di commedia: è un dramma: la sfera va fuori, altissima, non dalla porta, ma dagli alveoli dei supporters licantropi, planando lontano, anzi lontanissimo sui sogni legittimi di promozione.
Due urticanti delusioni, in altrettante stagioni. Dieci chili di cenere immacolata ai piedi dell’ulivo che trionfa d’oro nel blu dello stemma dell’Unione Sportiva Lecce. Cadere, ferirsi. Sprofondare, quasi soccombere. Rialzarsi, per afferrare una Coppa: la Nexus. Sì, una volta per tutte: scioglierla per fare ciondoli da regalare alla Curva Nord. La sofferenza ha fertilizzato, nella cadetteria più difficile degli ultimi venti anni, una stagione adrenalinica, equilibrata: un carosello al centro di Piazza Mazzini.
6 maggio 2022. Il Lecce di Marco Baroni vince il campionato di Serie B 2021-22 con settantuno lunghezze, una media che tallona i due punti a gara, cinquantanove gol fatti, trentuno subiti (miglior difesa) e diciannove vittorie. La grandezza dell’impresa si misura in rapporto alla difficoltà del torneo: sei squadre in soli sei punti (Monza, Cremonese, Pisa, Brescia e Ascoli) in costante lotta di nervi nelle trentotto giornate.
Lu pane cchiù è sudatu e cchiù bbinchia (“bbinchia”, sazia).
Nel precampionato, pur non avendo la disponibilità economica del paperone di Benevento, Ciro Vigorito, il direttore dell’area tecnica Pantaleo Corvino, vecchio lupo di campo, pensa come un lampo e agisce come un fulmine: esegue un mercato eccellente per i canoni del purgatorio. Tiene Massimo Coda e la spina dorsale della stagione precedente. Prende Gabriel Strefezza, Mario Gargiulo, Francesco Di Mariano, giusto per citarne qualcuno, dei veri fattori nella seconda serie.
Durante il cammino, i giallorossi hanno avuto cura di: annientare il Monza del Condor e del Cavaliere, 3-0; umiliare il Parma dello Stone Age, Gigi Buffon, 4-0; regolare il Pisa del tanto invocato per la maglia azzurra Lorenzo Lucca, 2-0. E non solo: dimostrare una mentalità da categoria superiore rispetto alla sorpresa Cremonese (promossa come seconda) della meglio gioventù, Gianluca Gaetano scuola Napoli e Nicolò Fagioli scuola Juve; mantenere le redini sui momenti di difficoltà, che producono pareggi e non capitomboli, rendendolo il club meno battuto e non incappando in masturbazioni folli, come la cacciata di Pippo Inzaghi nel momento clou da parte del Brescia di Massimo Cellino.
Il mister della cavalcata è Marco Baroni, fiorentino classe ’63, di quelli che quando parlano dicono cose sensate, non cercando l’abbronzatura del riflettore. Nel 2017 portò per la prima volta la strega beneventana in paradiso, pertanto sa come si fa. A Lecce non arriva a caso: era il centrale difensivo dei giallorossi negli ultimi anni degli Ottanta, sotto la guida in campo da Sor Magara, Carletto Mazzone, e in scrivania dal presidentissimo Franco Jurlano, un baffo di purissima leggenda popolare. Le prestazioni granitiche dalla retroguardia leccese gli valsero l’opportunità di difendere il fortino del Napoli di Maradona e vincere al suo fianco lo Scudetto del 1990 contro il Milan degli olandesi. Tra Baroni e Lecce c’è feeling: guida l’ambiente misurandone umori e malumori.
In campo i salentini si dispongono con un 4-3-3 che all’apparenza guarda a Rinus Michels, ma in realtà è più Italiano degli spaghetti o della pizza. Il carioca Gabriel pronto a lanciare il pallone dritto sul pivot. Il capitano Fabio Lucioni a guidare la linea con autorevolezza, senza lesinare la sfrontatezza di sgroppate da libero vecchio stile. Un buon capo di gabinetto per la Ministra Cartabia. Accanto a lui un centrale di nervo, Kastriot Dermaku, aquila albanese cresciuta nella provincia di Modena, una mina vagante per gli avversari durante le palle inattive o all’occorrenza il tredici statuario Alessandro Tuia. I terzini si alternano spesso: a destra il romano Arturo Calabresi, scuola Roma, il transalpino Valentin Gendrey e Pancrazio Faragò, calabrese di proprietà del Cagliari (jolly anche per il centrocampo); a sinistra il prodotto delle giovanili Antonino Gallo, nazionale under 21, mancino tecnicamente estetico, efficace, che ogni tanto cede il passo ad Antonio Barreca, talento salvato dalla condizione di meteora.
Nei tre di centrocampo spadroneggia il nord più profondo, glaciale, tra geyser e fiordi: i nazionali islandesi Jóhann Helgason e Brynjar Ingi Bjarnason e il nazionale danese Morten Hjulmand, giovani dotati di mezzo polmone in più, bravi a battagliare per recuperare i palloni, facendo da frangiflutti davanti alla difesa e impostando l’azione con criterio. Questi si alternano a un veterano del club, il nazionale sloveno Žan Majer (l’autore della capocciata promozione contro il Pordenone), al gigante francese Alexis Blin e all’incursore letale Mario Gargiulo. In attacco ritroviamo l’uomo nominato miglior calciatore del campionato, nonché capocannoniere con 20 centri (valsi il Premio Paolo Rossi) e autore di 7 assist: Massimo Coda, un numero 9 di valorosa tradizione italica, fisicamente l’Obelisco di Porta Napoli.
La prima cosa che fece, una volta arrivato a Lecce, fu andare nell’Anfiteatro Greco Romano per respirarne la polvere, decidendo di imitare sui campi di provincia dell’Italia le gesta del gladiatore più valoroso.
Al vertice della fascia destra ha regnato per tutta la stagione l’estro di un funambolo nato a San Paolo nel 1997: Strefezza, detto Espeto. Baricentro basso, gambe potenti – due rocce del Pico da Neblina –, visione di gioco satellitare, tiro secco, inesorabile, ambidestro, imbastito in una frazione di secondo. È sempre pronto a smarcarsi con trame di giustezza senza palla, bravo a dribblare non solo gli avversari, ma anche i piccioni che scappano sul tetto degli stadi, offrendo serpentine d’applausi. Riempie di consigli i compagni più giovani, senza sosta. È affetto dal vizio del gol: 14 marcature, tutte dalla cifra tecnica notevole. Un missionario del fútbol, ma non un giocoliere, una freccia dotata di pragmatismo, che merita di predicare tra San Siro, l’Allianz Stadium, l’Olimpico.
A comporre il tridente offensivo l’imprevedibilità dell’esterno Di Mariano o del versatile Ragusa, senza dimenticare il brio brulicante, spesso riversato dall’allenatore a gara in corsa, del polacco Marcin Listkowski e di Pablo Rodríguez, spagnolo proveniente dalla cantera del Real Madrid.
Al Lecce è stato riconosciuto, dai media e dagli avversari, un merito indiscutibile: offrire il miglior calcio del purgatorio. Un gioco dettato dall’intelligenza tattica dei suoi interpreti: il fraseggio è una chiave per scardinare negli ultimi trenta metri la resistenza delle difese avversarie, che si presentano spesso con undici effettivi dietro la linea della palla. Il possesso a centrocampo è un’arma per gestire il ritmo della gara e mai un orpello. Quando i mediani riconquistano il pallone, la verticalizzazione verso l’attaccante in smarcamento è un automatismo. La squadra evita di gestire il pallino del gioco partendo freneticamente dal portiere: sfrutta la possibilità di lanciare la sfera a Coda, abile a difenderla dal marcatore, per proporla all’incursore con sponde e passaggi filtranti, evitando rischi prettamente estetici alla retroguardia.
Il Lecce è una formazione votata all’attacco, che pratica un pressing ultra-offensivo sui portatori avversari e quando perde la palla, va subito alla ricerca della stessa. Il Lecce pratica le marcature preventive e tiene i terzini altissimi, ma ha una caratteristica su tutte: alla bisogna sa difendere con il gladio come una squadra che deve salvarsi, azionando il buon vecchio catenaccio e contropiede. Un’ambivalenza vincente dovuta alla qualità degli interpreti sulla mediana e sugli esterni, alla capacità di impostare della guida della difesa, ma soprattutto alla possibilità di un vero bomber davanti, pronto a prendere le botte per fare respirare i suoi.
La leggenda del falso nueve guardoliano è un bluff: il vero numero 9 ti salva la vita quando la serata sembra essere storta e l’avversario ti ha bloccato le fonti di gioco. Real Madrid-Manchester City docet.
A livello societario il Lupo che ulula alla luna tra gli ulivi è l’ultimo baluardo del calcio a misura di persona. Un modello italiano, costruito da italiani, anzi salentino, costruito da salentini, interamente calibrato sulla felicità del tifoso e sul senso d’appartenenza di un intero territorio. Il calcio in Puglia è un motore sociale mica da ridere. Quando nel 2016 il club stava per fallire nell’inferno della Serie C, un gruppo di pregevoli professionisti si è unito e lo ha salvato, pagando di tasca propria denari e scotto dei risultati. Uomini di competenza, d’umanità, di fervida passione. Il presidente, avvocato e docente universitario, Saverio Sticchi Damiani, il portavoce delle aspirazioni e dei dolori di un popolo. Lo si può trovare a bere un caffè al bar 330mila oppure a partecipare a qualsivoglia evento cittadino o ancora ad inaugurare un club giallorosso in qualsiasi angolo dello Stivale. Per amore non si sottrae mai al dialogo coi tifosi: non nega a nessuno una chiacchierata tra piazza e social network.
I vicepresidenti, Alessandro Adamo, esperto di economia, finanza e marketing, uomo dall’eleganza contagiosa, che ricorda lo stile dei dirigenti sportivi italiani degli anni Sessanta-Settanta (quelli che ci mancano maledettamente) e Corrado Liguori, uomo d’impresa, un ultrà che coordina l’entusiasmo incontenibile dei supporters. Figure mai avulse dalla gente: sono parte vibrante del tifo, delle dinamiche dirigenziali, della quotidianità reale della penisola salentina. Accanto a loro spicca il fiuto inimitabile di Pantaleo Corvino, le capacità gestionali di Giuseppe Mercandante e l’invidiabile conoscenza delle piazze vulcaniche del direttore sportivo Stefano Trinchera. Il Lecce investe tanto nel settore giovanile, proseguendo un percorso che intende costruire prodotti autoctoni come accaduto alla fine degli anni Ottanta e nella prima decade del Duemila. Opportunità nata altresì dall’apporto in termini di capitali dell’azionista più facoltoso, il banchiere e imprenditore Renè de Picciotto.
L’ultimo encomio sulla spettacolare annata giallorossa lo merita una tifoseria che è il manifesto del calcio senza compromessi né rimpianti. I tifosi licantropi sono i più istintivi d’Italia: nulla viene perdonato a colui che tradisce l’onore del drappo rosso con scritta gialla, esposto da quarant’anni in ogni dove. L’entusiasmo può toccare i quattromila metri, la delusione può affossare tutti tra i reperti archeologici della Magna Grecia, sottoterra. L’equilibrio nella Terra d’Otranto che ulula è complesso. Ma è questo istinto, talmente singolare, talmente pirotecnico, a portare migliaia di tifosi dal Tacco in ogni stadio della cadetteria al ghiaccio, al sole spellante, a rischio di vedere poco dal settore ospiti.
È questo istinto, talmente esplosivo, talmente esclusivo, a riempire il Via del Mare di oltre ventisei mila cuori, numeri rintracciabili con il binocolo da quasi la totalità delle compagini di destra della classifica di Serie A.
Il Via del Mare è un’esperienza, da tramandare da padre in figlio. Il Via del Mare è una legge interiore che unisce in un coro di fratellanza o in un calice di Primitivo la Zona 167, il quartiere Salesiani, Santa Rosa, il quartiere della Salute, la Ferrovia, Zona Leuca, Zona Mazzini, Borgo San Nicola, le marine e tutta la provincia degli poppiti come fossero un unico blocco di pietra leccese pronto ad essere modellato dalle emozioni scatenate dall’undici giallorosso.
E allora, adesso è facile capire cosa hanno urlato al totalitario cielo, accarezzato da lu rusciu te lu mare, i tifosi del Lecce il 2 agosto 2020 e il 20 maggio 2021. Sono i versi di Salvatore Toma, tratti dal Canzoniere della morte. Narrano la genesi di una festa cominciata dall’arsura di un bagno di lacrime e terminata con la dissetante esultanza, sfrenata per le vie del barocco, di Lecce-Pordenone. Grandi dell’élites del calcio tricolore, l’ammazza-grandi è tornata!
Vorrei morire mi dico
senza saperlo
a tradimento
in un momento
in cui non me l’aspetto.
Ma ecco che l’alba
riaffiora assurda
e la vita ridiventa
l’incontenibile gioco.
Foto Copertina Lega Serie B