Da Venezia a Genova, da Torino a Milano: non si vince solo sul campo.
L’uomo che vinse nei due mondi, l’eroe dei due mondi. Giuseppe Marotta da Varese, amministratore delegato dell’Inter dal dicembre 2018, è il vero simbolo del tricolore nerazzurro 2021. Con questo trionfo, Marotta si siede allo stesso tavolo di un altro monumento del calcio italiano di un tempo: Italo Allodi, storico deux ex machina della Grande Inter di Moratti senior e della Juventus di Boniperti e Trapattoni, oltre che del primo Napoli scudettato di Maradona nel 1987.
Conquistare titoli non è mai banale. Meno ancora farlo dalla scrivania. Dirigendo Juventus ed Inter non ne parliamo. Essere un grande dirigente calcistico è complesso. Ne sa qualcosa Fabio Paratici, ex delfino – ora annaspante – proprio di Marotta tra Sampdoria e Juventus, o Paolo Maldini, leggenda rossonera sul campo, ancora tutto da decifrare alla scrivania. Un conto è la panchina, un conto è la gestione societaria. Per l’Inter non è la prima volta che qualcuno legato a doppio filo al mondo juventino, porta tituli ad Appiano Gentile.
Oltre ad Allodi, era successo anche 32 anni fa con Giovanni Trapattoni in panchina, dopo una vita in bianconero per il Trap nazionale. Ora la storia si ripete con Antonio Conte. Bianconero sino alla punta dei capelli, l’ex ct azzurro ha dimostrato una professionalità enorme, compiendo un’impresa storica, al contrario di uno dei suoi mentori, Marcello Lippi. Ossessionato dalla vittoria, fin dal suo arrivo nel giugno 2019 ha creduto in un solo mantra: spodestare dalla leadership italiana il club del suo cuore, la Juventus.
Conte però, è una scelta voluta, tutelata e difesa proprio da Giuseppe Marotta, il vero regista – più di Brozovic o Eriksen sul terreno di gioco – di quest’Inter tricolore. Vincente, molto poco italiana (prendendo in prestito le parole del leggendario Stanis La Rochelle in Boris) nella sua composizione, ma con un animo ben rappresentato da due prodotti made in Italy: Alessandro Bastoni e Nicolò Barella. Marotta, con buon senso e discreti forzieri aperti tra maggio 2019 e maggio 2020, ha messo a disposizione di Conte una rosa omogenea, dalla qualità medio alta, con una quota tricolore – a differenza del recente passato – nitida e chiara.
Oltre ai citati Bastoni e Barella, ecco Darmian, Sensi, Gagliardini, Ranocchia, D’Ambrosio, Padelli e Pinamonti. Nomi magari poco esaltanti per il tifoso medio, ma essenziali in un meltin pot di nazionalità come lo spogliatoio dell’Inter. Questo microcosmo italico è stata una delle fortune di questo scudetto. Certo, senza i gol di Lukaku, le parate – alcune – di Handanovic, le sgasate di Hakimi, gli arpeggi di Eriksen e le veroniche di Lautaro, il titolo sarebbe stato forse più complesso vincerlo, per non dire impossibile, ma la “italian’s way” si è rivelata fondamentale per trasmettere senso di appartenenza agli stranieri presenti in rosa.
Raccordo preziosissimo tra il tecnico e i grandi giocatori approdati tra l’estate 2019 e il 2020 alla corte nerazzurra.
Marotta ha saputo così ricreare l’incantesimo di un’Inter vincente e non autolesionista. Impresa che sembrava impossibile, post macerie nucleari 2010. In appena 2 anni e mezzo è stato capace di rompere l’egemonia della Juve, prendendosi una rivincita su chi lo pensava un onesto mestierante della professione. La dimostrazione di come la gavetta faccia raccogliere enormi dividendi nel momento della maturità lavorativa.
A Marotta, e in parte anche a Conte, va dato quindi un grande merito: aver trasformato la Serie A in un campionato quasi avvincente, non più sulla falsariga della Scottish Premiership di questi ultimi tempi. Come ci è riuscito? Buon senso, fiuto, malizia e il timing corretto nelle scelte.
Quest’Inter non fa strabuzzare gli occhi o non rapisce l’animo di sensazioni di onnipotenza tecnica. Eppure, anche dal cemento armato, si può scorgere bellezza. Il piacere della solidità, della forza, della sicurezza è stata la chiave di volta per questa squadra, da sempre abituata ad essere realista chiedendo l’impossibile, per citare Albert Camus. Pragmatica, granitica, come la migliore tradizione italica insegna.
“Con gli attacchi si vendono i biglietti, con le difese si vincono i titoli” è il refrain che spesso si legge nelle fasi calde della lega più bella del mondo, l’NBA.
Come nel basket americano, in cui tutto viene analizzato ai raggi x, anche qui Marotta non ha lasciato nulla al caso e, in maniera certosina, ha messo in mano a Conte i migliori scalpelli e attrezzi possibili per la sua scultura. Eriksen incluso: il cambio di marcia dei nerazzurri avviene in una stanca serata di gennaio, proprio grazie al danese volante e al suo genio balistico. A farne le spese è il Milan, la squadra più sorprendente di quest’anno di pandemia, fino a quel momento in corsa su tutti i fronti.
La tecnica al potere, perché quando c’è Marotta di mezzo è sempre una questione di tempo e tempi. Quello della semina e del raccolto, quello della vittoria e quello della sconfitta, quella della pazienza e delle accelerazioni, quello della gavetta e delle soddisfazioni. Di squadra e personali. Come un novello Robinson Crusoe, Beppe nel corso di più di 40 anni di carriera ha saputo inventare e re-inventare un mestiere: quello dell’amministratore delegato.
Uomo di calcio nel senso antico del termine, ma non per questo vetusto. Alla vecchia maniera, ma con un debole per la gioventù. La meglio gioventù. Meglio ancora se dominante tecnicamente. Pogba la sua scommessa più vincente, per non parlare del prestito più impattante della storia della Serie A: Alvaro Recoba, Venezia 1999.
Fabrizio De André, poeta prestato alle 6 corde, muore l’11 gennaio 1999 a Città Studi, quartiere di Milano noto per ospitare l’ICCS, una delle eccellenze lombarde in tema di sanità. In quegli stessi giorni se ne va da Milano per approdare in Laguna, in prestito secco proprio dall’Inter, El Chino, al secolo Alvaro Recoba.
È voluto fortemente proprio da Beppe di Varese, rimasto ammaliato l’anno prima dalle giocate di questo milonguero uruguaiano regalato al fútbol. Eh sì, perché Alvaro non gioca con la palla tra i piedi, Alvaro danza con la sfera attaccata al suo sinistro, proprio come un ballerino di tango quando muove in sincronia gambe, bacino e braccia.
E se in radio nei mesi a seguire lo sgarravenismo romantico di “Iris” dei Goo Goo Dolls, dimenticabile One Hit Wonder Band dell’imbrunire degli anni ’90, al Penzo Recoba mette in campo un bolero in piena regola, salvando praticamente da solo una squadra destinata al ritorno in B per direttissima. Raccontare i cinque mesi di Recoba a Venezia potrebbe essere un mero esercizio di retorica sportiva e in molti si sono già cimentati a tal proposito. Meglio limitarsi allora alla visione di Venezia-Inter 3 a 1 del 16 maggio 1999. Il giorno della matematica certezza di permanenza in serie A del Venezia.
Varese, Monza, Como, Ravenna – dove per primo crede in un giovanissimo Bobo Vieri – , Venezia, Atalanta, Sampdoria, Juventus ed infine Inter. Un personale cammino da nordovest a nordest del Belpaese, andata e ritorno, pieno di risultati e traguardi raggiunti. Sul campo e dietro la scrivania. Il preliminare di Champions conquistato con la Sampdoria nel 2010, forse la sua impresa più grande, ben più alta dei 7 scudetti consecutivi da timoniere della Juventus o del successo tricolore con l’Inter.
Per non parlare delle ricostruzioni e scalate con Ravenna, Venezia, Atalanta. Direttore, prima ancora che amministratore. Visionario, prima ancora che realizzatore. Perché Marotta non è solo l’uomo mercato, il dirigente che trova e scova talenti, ma un professionista con una visione globale del club in cui si trova a medio e lungo termine. Così in questi giorni tutti individuano in Conte colui che ha decretato la fine del “regno” bianconero, ma l’unico ad essere passato direttamente da una squadra all’altra, segnando il declino di una e l’ascesa dell’altra, è proprio Beppe Marotta. L’uomo che vinse (e convinse) nei due mondi.