Altri Sport
14 Marzo 2020

Le origini della Muay Thai

Vita e lotta nella Thailandia profonda.

Swasdee Krap. Ogni viaggio in Thailandia inizia e si conclude con il saluto tipico Thai, seguito da un sorriso filtrato da occhi sinceri e grati. Si, perché il saluto è il momento sacro in cui ci si sveste delle proprie ansie, dei propri preconcetti e ci si apre alla conoscenza ed al rispetto verso l’altro. La Thailandia, per definizione, è la terra del sorriso, è la terra della libertà come ci dice il suo stesso nome che, tradotto dalla lingua Thai, significa libero. Innegabile asserire come la Thailandia sia una terra fortemente criptica, dalle radici secolari e forti che riescono a far convivere pace e guerra, bene e male, tutte all’interno di un sistema di contrappesi bilanciato.

 

La sua storia è impreziosita dal fatto che non ha mai conosciuto il giogo della colonizzazione europea, permettendo a diverse etnie di convivere sullo stesso territorio, praticando l’arte della tolleranza. Il saluto, quindi, è la chiave per la porta che si affaccia sull’alterità. E come ogni arte marziale anche la Muay Thai riconosce la sacralità dell’incontro nel rispetto delle differenze. La storia della Muay Thai si intreccia con le origini della sua terra, la Thailandia, a cui è inscindibilmente legata. È una storia di uomini tra carne e leggenda che risale a circa duemila anni fa. Tramandate solo in forma orale, le gesta dei grandi lottatori Thai, arrivano a conoscenza di tutti come arte marziale nobile, praticata dagli antichi re del Siam, nome con cui la Thailandia si identifica fino al 1945.

 

Educazione thailandese

 

Proprio nell’alto periodo siamese che va dal 1500 al 1700, la Muay Thai e le sue origini si fondono con la leggenda. Grazie al sovrano siamese Naresun il Grande, nel 1590, la Muay-Thai diventa addestramento obbligatorio per i soldati del regno. Successivamente con il Re-Tigre, Pra Chao Sua nel 1703, l’arte marziale diventa pratica diffusa anche nella popolazione civile. A permettere lo sviluppo della pratica della Thai è contribuito un periodo di pace che permise alla popolazione lo studio completo dell’arte delle otto armi, soprannome accostato alla Muay Thai per via dell’utilizzo di tecniche che vanno dai pugni ai calci, passando per gomiti e ginocchia.

 

Pra Chao Sua, narra la leggenda, usava camuffarsi per andare a sfidare la popolazione civile, in veri e propri match di gladiatoria memoria, in ogni angolo del regno. Il Re Tigre rappresenta un simbolo sacro per la popolazione thailandese parimenti con Nai Khanon Thom, leggendario guerriero Thai, che nel 1774 durante il periodo di dominazione birmana sconfisse consecutivamente dodici avversari ottenendo l’affrancamento dallo status di prigioniero di guerra, venendo celebrato ogni 17 marzo come eroe nazionale.

 

L’antica arte Muay Boran, praticata dai siamesi dal 1500 in poi, è lontana anni luce dall’odierna Thai-Boxe. Gli incontri dal 1930 hanno subito limitazioni temporali e tecniche affinché non arrecassero danni permanenti nei combattenti. Precauzioni sono state anche prese per proteggere il Thai Boxer nella sua integrità fisica, attraverso l’utilizzo di protezioni come i guantoni. Gli scontri antichi, invece, erano caratterizzati da una violenza cruda che poteva sfociare nella morte dei combattenti. Non vi era alcun tipo di protezione ed i tre stili di combattimento Thai, Korat, Lopburi e Chaya, venivano applicati con il solo utilizzo dei Kard Chueck, consistenti in fasciature di cotone intrecciato sulle mani, alle quali venivano applicati resina e vetro per poter squarciare la pelle dell’avversario. La ragione di questa eccessiva crudezza nella pratica dell’arte marziale era determinata dal fatto che la Muay Thai fosse utilizzata come mezzo difensivo in guerra.

 

Discepoli dell’antica arte Muay Boran

 

Oggi quest’arte marziale, seppur ancorata ad una tradizione spirituale e religiosa, viene utilizzata come vero e proprio Soft Power utile a immettere sul mercato globale la Thailandia, come vero e proprio brand commerciale. Le famiglie dei Thai Boxer inviano i propri figli, fin da piccoli, in camp dislocati sul tutto il territorio, affinché i guerrieri in erba possano crescere, combattere e soprattutto guadagnare borse che sostengano un’economia familiare basata soprattutto su agricoltura e pesca. Non è così strabiliante, quindi, che i combattenti Thailandesi abbiano all’attivo in media 200-300 incontri in carriera, proprio per il fatto che comincino a combattere alla tenera età di dodici anni.

 

Il combattente Thai è un investimento per le famiglie e per i maestri a cui va una quota degli introiti dei ragazzi. Eppure la sacralità della Muay-Thai, per quanto scimmiottata in Europa da atleti che non possono comprenderne fino in fondo i crismi spirituali, vive e nutre i rapporti interpersonali. La figura del maestro è centrale nella pratica dell’arte marziale thailandese. Ogni piccolo thai-boxer affianca al proprio nome di battesimo, il nome della scuola di appartenenza come un marchio impresso fuoco nella storia. Al maestro gli allievi devono tutto. Per far parte del loro micro-cosmo chiuso, bisogna guadagnarsi la fiducia degli stessi e rendergli omaggi ad ogni combattimento.

 

Chiunque abbia trascinato le proprie scarpe tra le strade di Bangkok, messo il naso in un camp di allenamento, assistito con i propri occhi ad una sfida allo stadio Lumpinee, avrà notato sicuramente come ogni incontro sia anticipato da un rito di iniziazione consistente in una danza: la Ram-Muay.
Questa danza propiziatoria rappresenta un modo di gratificare i propri maestri, di ingraziarsi la divinità protettrice e viene ballata al ritmo di flauti che accompagnano tutto l’incontro. Man mano che l’incontro entra nel vivo la melodia si fa più incalzante seguendo, pedissequamente, le azioni dei combattenti scandendone il ritmo. Nelle orecchie dei thailandesi, quei flauti, risuonano ogni giorno della loro esistenza e li accompagnano ad affrontare sulla terra il duro passaggio della vita terrena.

 

Una visuale dalla pancia dell’arena Lumpinee

 

Arrancare dietro ad un mondo che cambia semanticamente forma costringe, spesso, le tradizioni ad adeguarsi e modellarsi intorno alle richieste di ingerenza nelle dinamiche della loro stessa natura. La Muay-Thai non fa eccezione. Ad oggi questa antichissima arte marziale è un business commerciale per allenatori e le relative scuole, che propongono allettanti camp per turisti, oltre al fatto che viene sempre più concesso il fianco alle scimmiottature di riti e tradizioni che hanno un significato molto profondo e spirituale.

 

I Thai-Boxer di oggi spesso girano il mondo come fossero Harlem Globetrotters, affrontando avversari stranieri e adeguandosi a discipline magari diverse dalla Muay-Thai. Il caso più emblematico di Thai Boxer globale è quello dello straordinario Buakaw por Pramuk, oggi Banchamek. In Thailandia non viene ricordato o riconosciuto come il più grande Thai-Boxer della storia. Nemo propheta in patria si potrebbe azzardare, ma la ragione di questa distopia tra fama intercontinentale e freddezza a livello nazionale è data dal fatto che Buakaw non è il combattente più titolato in patria, non ha mai detenuto il titolo di campione dello stadio Lumpinee- culla della Thai-Boxe per eccellenza-, a differenza di atleti come Namsankoi.

 

La ragione della sua fama è da ricercarsi nell’apertura che ha scelto di assumere nei confronti del mondo occidentale. Buakaw ha scelto di confrontarsi con i più grandi campioni del mondo, in una disciplina non sua come il K-1, riuscendo anche a vincere, dominando, il K-1 World Max Gp. Ad onore di cronaca, negli anni precedenti alla vittoria di Buakaw nel K-1 Max, anche altri campioni thailandesi avevano intrapreso la via dell’apertura occidentale, senza grandi risultati. Gli ingredienti per una grande storia ci sono tutte: Buakaw riveste un po’ il ruolo di rinnegato in patria, di underdog vincente oltre i confini thailandesi: non mancano naturalmente cadute e rinascite.

 

Buakaw immortalato nell’atto di sferrare un calcio degno della sua fama

 

Diversamente da quanto si possa pensare il suo momento di down non arriva in seguito ad una sconfitta, ad un match duro contro un temibile avversario. Chi colpisce Buakaw duramente è la sua stessa scuola, la Pramuk, che lo spoglia completamente dei suoi compensi derivanti dalle vittorie internazionali tentando di condurlo al ritiro ancora giovanissimo. A seguito di una intensa battaglia legale, Buakaw si rialza abbracciando il suo nuovo villaggio: la scuola Banchamek che riunisce validi combattenti della povera regione dell’ISA.

 

L’importanza di Buakaw ha squarciato il velo sulle reali condizioni, spesso di sfruttamento, povertà e scarsità di cultura che permangono nei villaggi thailandesi chiusi, delle enclave in cui i piccoli Thai Boxer diventano merce di scambio e di approvvigionamento per molti personaggi. Inoltre, il pluridecorato Thailandese, ha permesso di portare alla ribalta il mondo della Muay Thai in palcoscenici internazionali. La sua figura ha funzionato da catalizzatore permettendo al mondo dell’arte marziale thailandese di immettersi sul mercato internazionale. Artisti marziali come Saenchai sor Kingstar o Sudsakorn sor Klinmee, ampiamente conosciuti oltre i confini thailandesi, senza le gesta di Buakaw, avrebbero trovato più difficoltà ad accrescere la loro fama di livello internazionale.

 

Per quanto oggi, spinti dalla forza centripeta della globalizzazione, siamo portati a credere che una determinata attività o un determinato prodotto debba rispondere a canoni di forte appeal commerciale, bisogna sforzarsi per preservare e soprattutto difendere tradizioni anche lontane. «La Globalizzazione attraverso i diritti, non attraverso i mercati», è una celebre frase di Stefano Rodotà contenuta in uno dei suoi testi più famosi: Il diritto di avere diritti. Si potrebbe aggiungere a questa citazione il concetto di una globalizzazione attraverso il rispetto delle tradizioni, in quanto, a difesa delle tradizioni si deve ergere la consapevole presa di coscienza della natura spirituale dell’uomo.

 

Thai Boxe: quando la tradizione sopravvive nel tempo

 

Le Arti Marziali non sono solo uno sport, non sono solo un buon metodo di autodifesa. Rappresentano uno stile di vita mosso da disciplina e rispetto. Una concezione forse troppo lontana dal mondo occidentale per poterla comprendere fino in fondo.

 

Se vi dovesse capitare di camminare tra le strade trafficate di Bangkok, quindi, e di sentire Swasdee Krap, ricordate che dietro quella forma assoluta di rispetto sono celate ossa, carne, leggenda e spirito.

 

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