Una nuova bellezza: razionale, efficace, consapevole.
Si dice che giocare contro l’Atalanta sia un po’ come andare dal dentista. Presentarsi in casa sua, poi, significa affrontare un banco di prova esiziale, qualcosa che assomiglia a un rito di passaggio doloroso. A Bergamo si gioca a un ritmo diverso e le squadre ospiti si trovano di fronte a un bivio: o soccombono, o si ingagliardiscono. E qui il Napoli, forse la squadra più in forma del panorama europeo, ha lanciato a tutti l’ennesimo segnale di forza.
Il primo tempo è stato uno spettacolo, da stropicciarsi gli occhi. Rapiti dalla velocità dell’incontro e dai continui ribaltamenti di fronte, abbiamo goduto con gioia puerile di ogni scontro in campo. Su tutti, il duello omerico tra Demiral e Oshimen, che, come Glauco e Diomede, si sono picchiati come si faceva una volta, ma sempre con reciproco rispetto. L’Atalanta ha premuto con decisione sull’acceleratore e il Napoli ha patito la frenetica energia dei bergamaschi, furie indomabili che non danno mai nessun pallone per scontato e che vivono di corse, duelli e contrasti. La verità è che l’inizio di partita della Dea, che sembra aver ritrovato lo smalto e l’impeto dei tempi migliori (i 27 punti in 13 partite lo certificano), avrebbe fatto crollare chiunque.
Tutti, tranne una grandissima squadra come il Napoli di Spalletti.
La sensazione è che il Napoli abbia acquisito una prerogativa delle squadre più grandi: la consapevolezza. Per questo i primissimi giorni di ottobre ci eravamo esposti sui partenopei, scrivendo «questo non è il “solito” Napoli, né il “solito” Spalletti»: una consapevolezza, a sua volta, che andava oltre i risultati, peraltro simili (allora) a quelli che i campani avevano registrato la scorsa stagione. Stavolta però c’era e c’è qualcosa di diverso, come dimostrato per l’ennesima volta ieri sera. Privi dell’uomo di maggior talento (Kvara, Ça va sans dire), nonché il principale dispensatore di imprevedibilità delle manovre offensive, gli uomini di Spalletti hanno giocato con solidità, senza mai dubitare dei propri mezzi e impedendo all’altalenante vento degli episodi di scalfire la loro fiducia.
Il Napoli oggi è superiore a chiunque altro sotto ogni punto di vista: fisico, tecnico e mentale. Ad impressionare, più di ogni altra cosa, è la sua capacità di adattarsi alle esigenze di ogni singola partita. I partenopei possono vincere in trasferta calciando 26 volte e segnando sei gol (chiedere all’Ajax per conferma), ma possono anche portare a casa partite sporche come quelle di Roma e Bergamo. Come le squadre più grandi, insomma, possono e sanno vincere in qualunque modo. Questo è l’aspetto che più di tutti oggi salta all’occhio, e che ormai riveste la bellezza napoletana di un nuovo carattere razionale e non più solo artistico. Scrive Alessandro Barbano nel suo editoriale sul Corriere dello Sport che il Napoli è «in fuga a sportellate, facendosi largo con una prepotenza pari alla convinzione che è lassù», in una ‘supremazia di corpo e anima’.
«Non si ricorda un’egemonia così netta e complessa, perché piantata allo stesso modo sui risultati e sulla bellezza: il modo in cui il Napoli vince sopravanza il valore stesso della vittoria. Perché il suo dominio estetico è inattaccabile».
Ha ragione e qui il concetto di estetica non si lega più solo al bel calcio, ai dribbling perfetti, alle goleade e ai gesti tecnici. Quella del Napoli è una bellezza che balla, che non si culla in se stessa ma anzi si valorizza quando è capace di votarsi all’efficacia. E se è vero, come dice oscar Washington Tabarez, che saper difendere bene è un’arte, il Napoli sembra aver compreso anche questo alla perfezione. Si esalta giustamente la macchina perfetta da gol ma lo sappiamo, non è solo così che si arriva fino alla fine.
Le tre trasferte (Milano, Roma e Bergamo) denotano invece uno spirito differente, una voglia di vincere e andare oltre l’ostacolo che forse erano mancate nelle annate precedenti. Oggi il Napoli è convinto di poter trionfare e per poter raggiungere il suo fine è pronto a giustificare ogni suo mezzo. E i suoi giocatori sono un po’ come l’armata dei 10000 persiani: se qualche titolare viene tolto dal campo, chi subentra non fa notare la differenza. Tutti sono utili, tutti sono al centro del progetto. Ennesima dimostrazione di un meccanismo perfetto.
Perché se è normale che ad occupare le copertine dei giornali sia Oshimen, e che ormai tutti parlino di quell’incredibile calciatore che è Lobotka, non si può non sottolineare uno dei simboli più fulgidi del Napoli di questo momento: Zambo Anguissa. Il camerunese, motore instancabile del centrocampo partenopeo ed esempio irrefutabile dello straordinario lavoro di Cristiano Giuntoli, è essenziale. Ha in sé le caratteristiche identitarie di questo Napoli: forza, tecnica e maturità. È nerboruto, ma ha anche classe. Lo si trova ovunque, eppure non è mai in affanno. Sembra scendere in campo intabarrato di un mantello di forza e consapevolezza. Controlla il ritmo delle partite con irrisoria semplicità, dominando avversari incolpevoli, costretti a tampinarlo a vuoto in ogni zona del campo.
C’è da chiedersi cosa sarà di questa Atalanta quando recupererà le frecce più affilate là davanti, Zapata e Muriel su tutti. A maggior ragione perché non ha le coppe, e di giocatori al Mondiale non manda praticamente nessuno (a partire dai colombiani, non qualificati). Ma c’è da chiedersi anche cosa sarà di questo Napoli, la cui luce, sempre più abbacinante, non vuole proprio saperne di farsi più flebile. E noi, che nel nostro inconscio pensiamo che la flessione del Napoli sia dietro l’angolo, forse dovremmo cominciare a realizzare che potrebbe non arrivare mai. Senza fare come Valdimir ed Estragon di Beckett, che hanno aspettato qualcosa che, poi, non è mai giunto.