Se è vero che i nostri corpi cantano, che alcuni gesti descrivono nell’aria versi precisi e non più ripetibili, vi sono allora dei loro frammenti (ossa, giunture, nervi…) che vanno letti come metonimia: una parte esatta per una totalità più grande. La bava alla bocca per un rigore sbagliato al novantesimo, le pose sguaiate di un’esultanza, le scapole sporgenti mentre si aspetta un passaggio che non arriverà mai. A guardarci da fuori, non esiteremmo a definirci ridicoli.
A sostenere, con Thomas Bernhard, che lo sport, in fondo, altro non è che «l’alibi preferito per giustificare la completa assurdità del singolo individuo». Viene persino da dargli ragione; e l’insensatezza di un infortunio che si ripete, di un fegato eternamente eroso dalla bile, chiede conto della nostra assurda ostinazione. Eppure, chi ha gioito anche solo una volta al più insperato dei gol allo scadere, non può cedere a una simile, velenosa tentazione: come definire altrimenti il fremito di un corpo lasso, che si accascia al suolo, stremato dopo una corsa? O quello di una bocca che addenta la borraccia, a ginocchia piegate, sulla sommità di una cima ambita? Oppure ancora il sussurro di parole ripetute a denti stretti, quando al triplice fischio il portiere si trova a fare i conti con la vanità della sua impresa?
Chiunque lo abbia praticato, seguito o semplicemente guardato di sfuggita, sa bene che lo sport è un piccolo teatro in cui vanno in scena le medesime dinamiche della vita quotidiana, magari esasperate, addolcite o ridotte a farsa. E, anzi, è forse proprio questo che ce lo fa piacere a dismisura. Sia che si interpreti un ruolo da protagonista, sia che ci si accoccoli sulla poltrona d’onore a bearsi dello spettacolo, questo mondo in miniatura diventa, fin troppo spesso per essere un caso, lo specchio magico dei peggiori vizi e delle più nobili virtù.
Per giunta, il gioco competitivo, con le sue leggi del tutto speciali proprio perché chiare, si dimostra il perfetto atto di ribellione contro l’inesorabile regolarità della natura. Giochiamo, falliamo, ci gloriamo di una vittoria in uno svago che, come atto gratuito e creativo, cioè in-utile e non necessario, ci fa per un attimo sfuggire all’arido meccanismo delle cose. Anche e soprattutto nella sofferenza che questo sforzo, indipendentemente dal risultato finale, sempre comporta.
Ci divertiamo, è vero. Ma non è solo sollazzo e riso. È un meccanismo, questo, che prevede dei sacrifici non secondari, un dazio da pagare al tavolo di cambio che fa rabbrividire, se solo si cercasse per un attimo di trattare con l’abaco qualcosa che sfugge a ogni razionalizzazione da contabile. Se infatti si mettono in fila gli sportivi professionisti, i dilettanti, i ciclisti della domenica, i tifosi da stadio e quelli da salotto, non può non inquietare questa semplice realizzazione: che ogni fine settimana, ogni giovedì di coppa, ad ogni finale di torneo, il numero di quelli che piangono, che stringono i pugni per la sconfitta o per un maledetto incidente capitato come una punizione del cielo, è innumerevolmente più grande di quello dei vincitori.
Eppure se poi c’è gioia, s’intende gioia pura e vera come nessun’altra, essa sta proprio nel riscatto di tutte le sconfitte ruminate nel silenzio di uno stadio vuoto, gli sfottò patiti sul luogo di lavoro, la consapevolezza del sacrificio per ottenere l’alloro tanto agognato e prima di allora sempre sfuggito per un soffio. E che comunque domani non sarà più mio.
La biografia della stragrande maggioranza degli atleti è costellata di croci, tra le quali spunta di tanto in tanto una medaglia. Il 99% dei tifosi, poi, conosce più batoste che tripudi e, fatta eccezione per pochi privilegiati, assistiti da un destino benevolo che ha concesso loro di primeggiare avidamente sugli avversari, gli altri si cimentano in fatiche immani e per le quali è giusto in fondo chiedersi se ne sia valsa la proverbiale pena. Per ogni vincitore cento sconfitti, mille scartati; per ogni puntata vinta, un milione andato in fumo!
E che dire delle diete con cui si sottomette il piacere alla volontà, del sudore che inumidisce i muscoli tesi, delle rinunce, dei lividi, delle contratture, le cicatrici, le trasferte senza fine, le orecchie arricciate, la militaresca osservanza di orari rigidi e ritmi massacranti, la durezza del tappeto al rintocco dell’ultimo round? A che valgono dunque queste fatiche e questi ostinati tentativi – gli arabi a ragione direbbero: questo jihād – per una guerra dalle punte smussate, una giostra dove non si uccide né si viene (quasi mai) uccisi?
Per qualcuno (Welte) è «prefigurazione della vita beata». Ma lo è quando il gioco rimane tale: le pallonate di un fanciullo contro la porta del garage nella calura di un luglio interminabile. Chiunque abbia giocato sul serio, sa che in palio c’è, il più delle volte, qualcosa d’ulteriore.
Eppure una stagione infernale talvolta compatta un ambiente ed esalta una tifoseria organizzata più di tante annate scialbe, da vivacchio. Nulla rinfranca gli animi più della solidarietà senza interessi del fallimento. Tanto più se si perde sempre, o perlomeno così tanto che la somma delle vittorie non riesce nemmeno ad emergere dall’ombra delle sconfitte . . .