Real Madrid e Manchester United reinterpretano il Marchese del Grillo.
Ora sappiamo tutto, anche i retroscena logistici. Lunedì 28 ottobre, cerimonia del Pallone d’Oro (ormai diventata una via di mezzo fra il Festival di Sanremo e i Grammy Awards). Il Real Madrid è pronto a invadere Parigi. Vincerà Vinicius Jr (il brasiliano l’ha anticipato con la solita affabilità a Gavi durante Real-Barcellona 0-4), vincerà Ancelotti, vincerà la squadra, vincerà la memoria di Kroos, vincerà il sacrificio di Carvajal, vincerà pure il giardiniere del Bernabèu. Sarà un trionfo totale.
I blancos stanno raggiungendo l’aeroporto, le feste sono già state organizzate, i parenti e gli amici invitati, i ristoranti prenotati, a Mbappé probabilmente è stato suggerito di non allontanarsi troppo perché di questi tempi non sarebbe opportuno… insomma alla festa mancano poche ore. Si tratta solo di salire sull’aereo, indossare gli smoking e godersi la gloria. Ma all’improvviso, arriva la soffiata (che non dovrebbe filtrare, almeno per salvaguardare lo spettacolo): Vinicius Jr. non ha vinto!
A quel punto, stizzito, Florentino Perez ordina: tutti a terra, si resta a casa. È una decisione tanto sorprendente quanto grottesca. Nella forma e nella sostanza.
Iniziamo dalla prima. Il Real Madrid è uno dei due o tre club più importanti al mondo. Un brand globale, come si usa dire. Con uno staff gigantesco. Possibile che, all’interno del reparto comunicazione o relazione esterne, non ci sia stato qualcuno in grado di indicare al presidente le conseguenze d’immagine di quella decisione? E se l’immagine non interessa, sicuri che tutto ciò non possa avere qualche ricaduta in termini di magliette vendute di Vinicius Jr o del Real stesso?
La puerilità della reazione, simile a quella di un bambino viziato, ha avuto effetti sgradevoli anche nella sostanza. Il Pallone d’Oro, in teoria, è un premio ad personam. È chiaro, le squadre sono fondamentali nel raggiungimento del trofeo. Nessuno può vincerlo giocando in un club di scarso successo. Ma il riconoscimento è comunque di natura individuale. Con il boicottaggio, decretato per contestare la mancata vittoria di un suo giocatore, Perez ha in realtà penalizzato un altro suo dipendente, Ancelotti, che non ha potuto ritirare il premio come miglior allenatore. Insomma, un atto sbagliato da ogni punto di vista.
Cosa ci ha guadagnato il Real Madrid ad assumere una tale posizione? Più forza percepita? E nei confronti di chi? Delle istituzioni? Degli organizzatori del premio? Dei media? Del pubblico? La storia dice che di peso politico la Casa Blanca ne ha già da vendere. In compenso, quanto ci ha perso? Parecchio, su tutti i fronti. L’aspetto più singolare è che il grande rifiuto va direttamente a smentire un pilastro filosofico sbandierato spesso dalle squadre di antica tradizione: “il club viene prima di tutto”. Qui invece assistiamo al capriccio personale di un signore, per quanto famoso, inviperito come un qualsiasi presidentino di provincia.
In pratica, le cronache ci riconsegnano un Florentino Perez in versione Marchese del Grillo: “Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un cazzo!”. Che questa frase, unica nella sua clamorosa arroganza, non passi mai di moda lo sappiamo da sempre. E gli effetti pratici li vediamo ovunque: nella politica, nell’economia, nella società, giù giù fino alla quotidianità più spicciola. Lo sport non fa eccezione e di esempi ne esistono a bizzeffe: l’Europa calcistica è piena di padri padroni con poco stile e zero fair play. Ma se a comportarsi secondo questa logica è il presidente di una società da oltre un miliardo di ricavi, beh, fa abbastanza tristezza.
A proposito di ricavi e di (molto)denaro, spostiamoci ora di circa 1500km a nord di Madrid.
Un altro top club si è distinto in questi giorni per protervia: il Manchester United. Imprigionati ormai da qualche tempo in una specie di labirinto psichedelico, i Red Devils hanno licenziato Erik ten Hag (dopo avergli prolungato il contratto solo 5 mesi fa). Fin lì, niente di straordinario. Il manager olandese non lo sopportava più nessuno, neppure il custode di Old Trafford. Costo della buonuscita: 15 milioni di euro, una bazzecola se paragonata alle cifre saudite, ma stravagante se si considera che il club aveva appena cancellato la festa di Natale “per risparmiare”.
Quando molti si aspettavano un’alternativa di buon senso (soluzione interna) o transitoria (vediamo fra i profili liberi chi è disponibile a traghettare una squadra attualmente 14esima), ecco che lo United va a prendere un allenatore in piena attività. In un altro campionato. A novembre. Pagando 11 milioni di euro per la clausola liberatoria. Si tratta di Ruben Amorim, giovane emergente dello Sporting Lisbona ed ex allievo di Mourinho.
Sorvoliamo sui costi finali della vicenda (25 milioni senza contare lo stipendio del nuovo manager). Sorvoliamo sulla bontà o meno della scelta tecnica (solo il tempo potrà stabilirla). Sorvoliamo sull’assoluta legittimità della trattativa (i contratti lo permettono). Resta però la sensazione di un’operazione piuttosto inelegante, volgare, prepotente e perfino accompagnata da un precedente infausto: nel 2022 il Chelsea “scippò” Graham Potter al Brighton a stagione in corso e si sa com’è finita.
I ben informati sostengono che l’ingaggio di Amorim sia una mossa preventiva per anticipare il City in caso di abbandono di Guardiola nel 2025. Può darsi. Ma il senso non cambia. Nell’arco di pochissime ore, due squadre fra le più titolate del mondo hanno sfoggiato un’arroganza dal retrogusto comico. Proprio come un qualsiasi sonetto del leggendario Giuseppe Gioacchino Belli.
Cover Contrasti da un’immagine di Tobias Rehbein