Ritratti
14 Giugno 2024

Piet Keizer, beter dan Cruijff

Ritratto di un talento ingiustamente dimenticato.

Pieter Jansz Saenredam, considerato in patria il secondo miglior pittore olandese dopo Vermeer ma quasi sconosciuto all’estero dai non esperti, ha passato la vita a ritrarre le navate delle cattedrali del suo Paese. In particolare quelle di Haarlem, la città dove viveva. Il suo obiettivo era riprodurre in modo meticoloso ogni elemento architettonico. Partiva da uno schizzo iniziale a matita e poi lo completava, lavorandoci per mesi in studio, dopo aver preso in loco tutte le misure del caso. Nelle sue opere, la figura umana aveva una funzione di contorno del tutto superflua, tanto che spesso non era nemmeno lui a raffigurare le persone ritratte nei suoi dipinti. Preferiva lasciare l’incombenza ai suoi assistenti, con risultati spesso innaturali e proporzioni sballate.

Chiesa di Santa Maria della Febbre, a Roma (olio su tavola, di Pieter Jansz Saenredam, 1629)

Cruijff e Saenredam hanno operato in ambiti diversissimi, l’arte pedatoria e quella figurativa, e sono nati a più di tre secoli di distanza l’uno dall’altro, ma entrambi – come fatto notare David Winner nel suo Brillant orange – hanno in comune la particolarissima sensibilità olandese nei confronti dello spazio e la capacità di mostrare il lato trascendente della semplicità.

Con una tavolozza di colori che accostava tonalità di bianco a quelle di beige – in una parola, “basica” – Saenredam riusciva a creare immagini astratte rappresentando la realtà in modo geometrico e realistico, trasmettendo allo spettatore la spiritualità dei luoghi di culto senza bisogno di santi, miracoli o ascese celesti circonfuse di luce dorata.

A Cruijff, d’altro canto, riuscivano movimenti ritenuti quasi impossibili per la maggior parte degli esseri umani. Tutti ricordano la famosa “Cruijff Turn”, una mezza veronica eseguita per la prima volta in mondovisione contro la Svezia durante la coppa del Mondo del 1974: Jan Olsson alle spalle, isolato sulla fascia sinistra, il 14 olandese aveva fintato uno scarico di destro facendosi poi passare il pallone tra le gambe e superando l’avversario con una piroetta. Era un colpo già visto negli stadi, da Pelé in giù erano stati in tanti a esibirsi in quella mossa, ma Cruijff l’aveva fatta sembrare un gioco da ragazzi, prendendosi per sempre la paternità di quel gesto.

La Johan Cruijff Turn

L’apparente assenza di sforzo di fronte a un avversario ridotto a simulacro di uno sportivo di alto livello, la connessione plastica tra pensiero e azione, ha ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, un che di soprannaturale. Irripetibile come Cruijff. Indimenticabile come il suo Ajax.

“Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia” è uno dei suoi aforismi più noti, ma lo scorrere fluido dei suoi movimenti in campo e l’enorme libertà di espressione stilistica del suo talento erano resi possibili da un sistema di precisione millimetrica costruito intorno a e con lui. Come per Saenredam: traspariva essenzialità, ma era il prodotto di una matematica complessa.

Discutevamo di spazio per tutto il tempo. Cruijff spiegava sempre dove i compagni avrebbero dovuto correre, dove rimanere fermi, dove non si sarebbero dovuti muovere” ha spiegato Barry Hulshoff, compagno di squadra di Johan all’Ajax. Dietro la sua danza libera; a ogni sua piroetta o plié. Dietro a quel balletto mascherato da calcio, c’era il totaalvoetbal di Rinus Michels e due squadre – l’Ajax e l’Olanda – che lo interpretavano con la dedizione di un’orchestra sinfonica. Due squadre fatte di altri giocatori formidabili o addirittura altrettanto formidabili.



Tra i tanti, uno che la grande storia del calcio ha parzialmente rimosso ma che nel mondo Ajax è semplicemente “l’imperatore”: Piet Keizer. “Cruijff è il migliore, ma Keizer è meglio” diceva non a caso il giornalista olandese Nico Scheepmaker, che a differenza di chi scrive li ha visti entrambi giocare dal vivo.

Quattro anni più grande di Johan, amsterdammer di nascita come il più noto collega, è il primo calciatore professionista di un movimento che sul finire degli anni Sessanta era ancora ancorato a un’idea dilettantistica dello sport, ma che in una manciata di anni diventerà avanguardia. Grande, grosso, squadrato, tecnico, velocissimo, Keizer sembrava un uomo paleolitico venuto dal futuro.

Come ha spiegato Mario Sconcerti, il calcio olandese dei Settanta esprimeva “un socialismo di fondo” perché era innanzitutto collettivo e paritario. Il pallone e lo spazio erano i due totem intorno ai quali ruotava tutto il sistema, mentre i giocatori si muovevano per il campo occupando ogni posizione e aiutandosi gli uni con gli altri.



In questa organizzazione ideale, come nella Fattoria degli animali di Orwell tutti erano uguali ma qualcuno era “più uguale degli altri”, nella fattispecie Keizer e Cruijff.

Keizer introdusse Cruijff al professionismo e nei primi anni gli fece da chioccia, arrivando a monitorarlo affinché la sera rientrasse a casa all’orario indicato dal mister. All’inizio era un legame tipo allievo e maestro, poi il talento di Johan ha fatto sì che il rapporto si facesse paritario. In campo si integravano a meraviglia, mentre al di fuori avevano caratteri diametralmente opposti: Keizer odiava i giornalisti e si rifiutava di rilasciare una qualunque dichiarazione, mentre Cruijff era sempre pronto a dare un’opinione su qualsiasi argomento. Nel “monologo senza fine” che era la cifra stessa del Cruijffianismo, il suo ipnotico modo di esprimersi.

Cruijff parlava e parlava mentre Keizer restava a bocca cucita, ma entrambi rifuggivano la disciplina troppo stringente, le regole troppo severe e faccia a faccia con gli allenatori non rinunciavano mai alla propria opinione.

Cruijff è considerato un genio, mentre Kees Jansma ha definito Keizer “un calciatore geniale e una persona bizzarra”, come se le menti superiori – a prescindere dal campo d’applicazione – non fossero di per sé dei freak all’interno di un pianeta sovrappopolato di individui uniformati.

Come Johan, Keizer su un campo da calcio vedeva ogni cosa a rallentatore rispetto agli altri: una caratteristica comune a tutti i grandi campioni dello sport. Il loro cervello, in contesti nei quali i meccanismi istintivi di fuga e lotta lo bombardano di cortisolo, adrenalina e corticotropina aumentando il flusso sanguigno e spingendolo ad avanzare tra una selva di nemici, riesce a mantenersi lucido e in grado di valutare la migliore opzione possibile scartando le variabili svantaggiose.

Come spiegato da Jorge Valdano a proposito del “gol del secolo” segnato da Maradona all’Inghilterra, mentre Diego correva all’impazzata dribblando un avversario dopo l’altro “le idee, scartate e usate, stavano accadendo a un ritmo vertiginoso, ma il suo cervello non permetteva loro di accumularsi e manteneva solo il meglio”.

piet keizer bellugi
In azione con l’interista Bellugi nella finale di Coppa dei Campioni (vinta dall’Ajax 2-0 grazie a una doppietta di Cruijff)

Con le dovute proporzioni, si potrebbe dire lo stesso di uno dei gol più famosi di Keizer, l’1-0 contro il Bayern di Monaco del 21 marzo 1973: una rete semplice rispetto alla cavalcata maradoniana, ma nella quale la velocità nel trasformare un pensiero fuori dagli schemi in azione è altrettanto elevata.

Osservandola in video a rallentatore, si può notare il momento preciso in cui Keizer decide, in modo controintuitivo, di optare per un pallonetto per superare Sepp Maier, il portierone della nazionale tedesca. In uscita disperata, ma sempre in piedi, Maier svettava di fronte a Piet come un colosso, ma scavalcarlo era sembrato una sciocchezza.

Il gol di Keizer contro il Bayern Monaco

La luce per far passare il pallone era ridottissima, ma a guardare l’azione a velocità normale la scelta sembra scontata. La facilità con cui Keizer mette in pratica la sua visione aveva trasformato l’impossibile in logico.

“Se non stessi giocando, andrei a guardare l’Ajax solo per vedere Keizer”, ha chiosato il centrocampista degli arci rivali del Feyenoord Wim van Hanegem. Se ne capiscono i motivi.



La commistione tra Keizer e Cruijff all’interno di un collettivo di campioni altrettanto dotati come Neeskens, Gerrie Mühren, Krol, Haan e Swart aveva permesso all’Ajax di vincere tre coppe dei Campioni consecutive, la prima sotto la guida di Michels e le altre del rumeno Stefan Kovacs.

L’allenatore che ha guidato l’Olanda vice campione del Mondo nel 1974 e quella campione d’Europa nel 1988 puntava tutto sulla automatizzazione di ogni aspetto del gioco, tanto che la nazionale Orange si meriterà l’appellativo di “arancia meccanica”, mentre Kovacs si limitò a offrire maggiore libertà ai suoi straordinari solisti, vincendo tutto ciò che si poteva vincere quasi senza sforzo. Arrivato ad Amsterdam con la nomea di essere il più economico tra i quindici candidati in corsa, Kovacs ottenne il posto a sorpresa e quando un giocatore – abituato al rigore di Michels – andò a chiedergli come voleva che si tagliasse i capelli, gli rispose di non essere un parrucchiere. Facesse un po’ come voleva.

La sua guida tecnica fu vincente ma di breve durata e con il suo allontanamento – dovuto alle forti frizioni che covavano nello spogliatoio – l’Ajax collassò. Gli scricchiolii si erano già  sentiti con l’addio di Michels. L’Ajax dei primi Settanta era una squadra piena di uomini carismatici e dal carattere complesso, tanto che al termine di ognuna delle finali disputate in quegli anni la coppa dei Campioni venne alzata da un capitano differente: Vasovic contro il Panathinaikos nel 1971, Keizer con l’Inter nel 1972 e Cruijf a Belgrado nel 1973.

piet keizer
Piet Keizer in azione

All’alba della stagione 1973-1974, da tricampione d’Europa in carica, l’Ajax di Cruijff e Keizer stava vivendo un momento di riflusso di motivazioni. Dopo la vittoria della terza finale contro la Juventus, conclusa con il trofeo gettato nel secchio della biancheria sporca perché conquistato regalando al pubblico un calcio poco spettacolare, rivalità e invidia erano all’apice. “Eravamo ancora gli stessi di prima, ma dopo la partita, ognuno tendeva a farsi gli affari propri. Se il calcio non ti dà gioia, va a finire male”. Ha spiegato Gerrie Muhren.

L’ego enorme di molti dei calciatori protagonisti di quella cavalcata, unito a una certa propensione autodistruttiva e a una pericolosa dose di snobismo, aveva portato il clima generale fino al punto di rottura. La troppa libertà concessa da Kovacs aveva annacquato l’idea di un collettivo di mutua assistenza, facendo prevalere gli interessi individuali. E Cruijff era quello che ne beneficiava maggiormente in termini economici.

Kovacs aveva perso il controllo della situazione e così fu messo alla porta e rimpiazzato con l’ex tecnico dell’MVV Maastricht, Hans Knobel.

L’obiettivo di Knobel, che verrà cacciato prima della fine della stagione per aver dichiarato in una conferenza stampa che l’Ajax stava smarrendosi a causa “dell’alcool e delle donne”, era quello di ristabilire una certa autorità sui suoi giocatori, ma da tempo i buoi erano scappati dal recinto.

In ritiro precampionato, in un clima di generale disfattismo, aveva provato a consolidare le gerarchie rimanendo nel solco democratico creato dal suo predecessore. E il primo problema che aveva deciso di sottoporre ai suoi tricampioni era la scelta del capitano. I giocatori, basiti da quella richiesta insolita, avrebbero dovuto votare nell’anonimato mettendo un bigliettino con il nome del prescelto in un vaso di fiori.

Cruijff pensava di avere diritto alla fascia esibita al braccio nell’ultima finale di coppa, per via del suo talento superiore, ma i suoi guadagni sopra la media, la sua popolarità soverchiante e l’incapacità a stare zitto – in campo e fuori – gli avevano creato antipatie. Tutti o quasi erano convinti che Keizer meritasse di fare il capitano perché avrebbe messo i bisogni del gruppo al di sopra dei propri, mentre Cruijff faceva sempre e solo l’interesse di Cruijff.

Con un modus operandi tipicamente olandese, i campioni dell’Ajax ribellarono al tiranno buttandolo giù dal trono.

Che ci fosse una fronda contro il leader della squadra era risaputo, ma quando i voti vennero scrutinati, le percentuali bulgare della vittoria di Keizer furono una sorpresa. Quando venne proclamato il vincitore, Cruijff la prese malissimo e andò a rinchiudersi in camera per attaccarsi al telefono e chiedere al suo suocero/procuratore Cor Coster di portarlo via da quel covo di vipere.

Che prima o poi Cruijff se ne sarebbe andato a Barcellona – per raggiungere Michels, che da due anni stava tentando di trapiantare con poco successo il totaalvoetbal in catalogna – lo sapevano un po’ tutti, ma la repentinità con cui prese quella decisione lasciò di stucco.

Ci fu chi provò a convincerlo a restare e chi era certo che la squadra avrebbe potuto sopravvivere e vincere anche senza di lui, ma quando si aprì lo squarcio nel tendone da circo, ognuno raccolse le sue cose e andò per la sua strada.

“Senza Cruyff, non ho una squadra”, aveva dichiarato Michels contravvenendo a ogni sua affermazione sull’importanza del collettivo, ma tra i suoi campioni nessuno gli aveva creduto.

Partito il suo leader, l’Ajax cominciò un fulmineo processo di disgregazione e lo stesso Keizer cadde vittima del disfattismo: silurato Knobel, la squadra venne assegnata ad Hans Kraay e i due entrarono presto in conflitto con esiti inaspettati. Nel nuovo Ajax, Keizer voleva arretrare a centrocampo, perché a trentuno anni pensava fosse il modo migliore per allungarsi la carriera. Il nuovo tecnico non era dello stesso parere.

Il giocatore la prese talmente male che decise di lasciare il calcio in modo repentino e il suo distacco da quel mondo fu talmente netto che la leggenda vuole che trent’anni dopo, a una partita di suo figlio, davanti a un pallone che gli veniva incontro si fosse spostato schifato per evitare di toccarlo. Intanto, a Barcellona Cruijff aveva posto le basi della rivoluzione che avrebbe trasformato il calcio spagnolo. Se prima del suo arrivo era uno sport rude, incentrato su contrasti violenti e agonismo esasperato, presto la tecnica e il possesso del pallone avrebbero cominciato a farla da padroni sulla violenza. Guardiola, uno dei suoi allievi più entusiasti, ha dichiarato: “Davanti alle situazioni più complicate penso spesso ‘che farebbe Cruijff?’”.

Keizer, d’altro canto, preferiva tenersi in disparte.

Mentre Johan parlava e parlava, Piet se ne stava zitto. Ancora e ancora, sino a che nessuno – lontano da Amsterdam dove di tanto in tanto lo ricordavano nelle rievocazioni – pensò più a lui. In mezzo a tanto anonimato, fu una sorpresa incredibile per tutti quando nel 1999 si fece rivedere in campo in una partita tra vecchie glorie organizzata per celebrare l’ex compagno. Per anni si era detto che tra i due covasse astio, ma vedendo come si erano comportati in quella situazione – genuinamente felici di stare insieme – in tanti avevano pensato che Keizer, come capitava ai suoi avversari, aveva messo tutti nel sacco.

Non c’era più il De Meer, lo stadio mitico in cui si è costruita l’epopea del grande Ajax, ma la più moderna – e da molti ripudiata – Amsterdam ArenA, ma Keizer rimaneva la montagna di un tempo, anche se canuto e un po’ ingobbito. E il pensiero alla base delle sue giocate era lo stesso: su un passaggio di Cruijff, ai ritmi balneari di quel tipo di sfide, non si era limitato a controllare il pallone, ma gli era passato accanto sfiorandolo appena per servire un compagno alle spalle. Un gesto controintuitivo, ma eseguito con tutta la semplicità del mondo.



Se non gli fosse stata assegnata la fascia di capitano in quell’estate del 1973, forse Cruijff sarebbe rimasto ad Amsterdam e il calcio olandese avrebbe continuato a mietere vittorie in campo internazionale, magari addirittura in un Mondiale. In finale contro la Germania Ovest, come accaduto in coppa dei Campioni con l’Inter, Keizer avrebbe regalato il pallone della vittoria a Cruijff, e i due si sarebbero abbracciati alzando la coppa in faccia agli odiati tedeschi. Da quel momento in poi il giochismo si sarebbe affermato per sempre sul risultatismo.

Forse l’epopea del Barcellona non sarebbe mai sbocciata e il calcio spagnolo si sarebbe caratterizzato esclusivamente per la garra dei suoi difensori arcigni. Dubito che in Catalogna ne sarebbero felici. Se per una volta la bellezza avesse vinto sul denaro, magari l’ordine avrebbe sconfitto il caos e – come nelle cattedrali di Saenredam – ogni cosa sarebbe andata al posto giusto. Semplicemente, ma con precisione matematica.

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