Un'avventura che riconcilia col senso profondo dello sport.
Quest’estate, a corollario di due lunghi, faticosi e bellissimi mesi in camper per i Balcani con moglie e tre figli al seguito, sognavo d’incrociare la strada con due ex stelle del nostro calcio che si sono trasferite da quelle parti, Rino Gattuso e Josip Ilicic, ma purtroppo non è capitato.
Speravo di imbattermi casualmente in uno dei due, per quella strana idea che un luogo sconosciuto, dopo averlo studiato su una guida, sia più gestibile della sconfinata minuzia del quotidiano, in cui magari non riusciamo nemmeno a riconoscere i volti di tutti gli inquilini del nostro palazzo. Speravo di andare allo stadio e che, sentendomi incitarli in italiano, si sarebbero voltati dalla mia parte mostrandomi un cenno d’intesa, ma ancora di più fantasticavo d’incontrare uno di loro a spasso per Spalato o Maribor, così da scambiarci quattro chiacchiere come capita nei piccoli paesi con il sindaco o il prete.
Non è passato poi molto da quando, nell’ottobre 2023, un gruppo di tifosi atalantini aveva incontrato il fantasista sloveno nella sua attuale città, portandogli vicinanza e amore dopo il periodo complicato della depressione. Nei video vedevo strade e vie che, arrivato in città, mi sono trovato ad attraversare con il mio ingombrante SuperAmerica del 1997 da quattro tonnellate. C’erano lo stadio e il campo di allenamento davanti ai quali ero transitato prima alla guida e poi durante una faticosa camminata a piedi sotto una pioggerella insistente. Ma nel mondo reale, di Iličić o dei suoi compagni non ho visto nemmeno l’ombra.
Per le vie di Sarajevo, una delle grandi tappe del mio viaggio
Era il 22 di luglio e una volta sul posto avevo provato a cercare i biglietti per un’eventuale partita, ma per mia sfortuna i gialloviola dell’NK Maribor, il club in cui Josip milita dal 2022-23, avevano giocato proprio la sera prima del mio arrivo. Una sfida abbastanza sbilanciata e finita 4-1 contro il Domzale, a oggi ultimo della classe, in cui Josip era stato tutto il tempo in panchina.
Intorno allo stadio, tra le decine di murales inneggianti la squadra di casa – un’usanza che ho poi scoperto è diffusissima un po’ dappertutto dall’altra sponda dell’Adriatico – non c’erano altre tracce del passaggio dei tifosi, né nel piazzale davanti all’ingresso principale. La Slovenia ha livelli di pulizia delle strade paragonabili ai Paesi nordici e nulla faceva pensare che il giorno prima si fosse giocata la prima giornata della Prva Liga, la Serie A locale.
Un gruppo di universitari italiani incontrati al supermercato, iscritti alla facoltà di Agraria che in Slovenia è molto quotata, mi aveva raccontato di vie bloccate da scalmanati pronti alla guerriglia, tra urla discriminatorie e gesti che in Italia non sarebbero proibiti solo se si trattasse di rievocazione storica, ma sui giornali o sul web non avevo trovato traccia di tanta barbarie.
Il fatto che mi parlassero di un “derby” con gli arcirivali dell’Olimpija Ljubljana – giocato in realtà solo il 25 agosto – avrebbe dovuto insospettirmi. Ma al momento mi aveva molto colpito una simile concitazione da parte degli sloveni, che nella normalità mi sembravano sempre così posati, tranquilli e sorridenti come Ilicic dopo il celebre poker del 2020 al Valencia.
Solo pochi giorni prima aveva sbagliato un rigore decisivo all’Europeo con la sua nazionale, ma il suo volto pensieroso, con gli occhi grandi e acquosi persi nell’infinito, sempre tra il riflessivo e l’amareggiato, non compariva nemmeno sulle pagine sportive dei giornali (non ho trovato traccia di una “Gazzetta” o un “Corsport” sloveni nelle rare edicole). Come se il fatto che non giocasse, che a me sembrava quasi sacrilego, in un campionato piccolo, marginale e poco competitivo non fosse una notizia rilevante.
La sua assenza e la pioggia ci spingevano più a sud, la febbrile voglia di mare dei bambini pure: avrei dovuto ritentare con Gattuso, a Spalato.
Spalato dista da Maribor più di cinquecento chilometri, una distanza che in auto si potrebbe percorrere serenamente in una mattinata. Ma i ritmi del camper – soprattutto quando si viaggia con dei bambini piccoli – possono essere pachidermici, così dopo varie tappe, stop e deviazioni siamo arrivati sulla costa Dalmata, alle porte di Split, ai primi di agosto. L’ennesimo, enorme murales dedicato all’Hajduk e alle sue frange di tifosi più accesi, la Torcida, campeggiava lungo la strada: “Zivimo za Hajduk”, viviamo per l’Hajduk. Iniziavo a scalpitare.
Erano i giorni in cui Gattuso compariva sui media italiani con una certa frequenza, per via di una conferenza stampa à la Strunz – stile Trapattoni al Bayern – o pure à la Mollo – come Malesani in Grecia, che aveva fatto discutere e molto ridere.
Bronzeo come uno che ha appena chiuso l’ombrellone per sedersi al tavolo del ristorantino sul mare a mangiare pesce, la T-shirt sociale bianco candido a creare ulteriore risalto, il capello e la barba sale e pepe ma ancora a maggioranza nero corvino, Rino aveva reagito sin dalle prime parole in croato dell’intervistatore curvando verso il basso la bocca in una piega sprezzante. Un volto simile a quello che da giocare rivolgeva all’avversario deboluccio che a terra si lamentava dopo essere stato travolto dalla sua foga selvaggia.
Il succo della domanda era che il risultato del suo Hajduk contro l’Havnar Bóltfelag nel secondo turno di qualificazione alla Conference League, un 2-0 suggellato da un rigore di un’altra vecchia conoscenza del nostro calcio, l’eterno Marko Livaja (nota a margine, in Croazia i Marko sono tantissimi ovviamente non solo tra i calciatori), era la cosa migliore della partita. Secondo il giornalista, infatti, la squadra di “Ringhio” aveva giocato male, raccogliendo più di quanto seminato.
Leggi, approfondisci, rifletti. Non perderti in un click, abbonati a ULTRA per ricevere il
meglio di Contrasti.
Non so se Rino capisce già qualche parola di croato, non penso ma non voglio essere prevenuto, sta di fatto che già prima che il traduttore cominciasse a riportare la domanda in italiano sembrava già fuori di sé. Dopo essersi grattato nervosamente la nuca, mettendo in mostra una pletora di braccialetti e catenelle d’oro giallo, ha fissato il traduttore negli occhi e con lo sguardo truce che gli avevo visto rivolgere allo “Squalo” Wilkins in quel Milan-Tottenham ha cominciato: “Primo tempo… che mi dici solo le cose negative? Rispondi… oh… che mi dici solo le cose negative?”.
Quando il traduttore aveva riportato le sue parole, Gattuso si era voltato verso il suo vero interlocutore seduto in platea e si era messo a ripetere: “Io e te cominciamo male”. Sostenendo che i suoi per sessanta minuti avessero giocato un “Calcio incredibile”.
Poi era stata la volta della grana Perišić, una delle stelle della squadra – per quanto un po’ cadente – rientrato in patria dal Tottenham con lo stipendio simbolico di un euro al mese dopo il bruttissimo infortunio che ha interrotto bruscamente la sua esperienza inglese. L’ex Inter, secondo le parole di Rino, “è venuto nel mio ufficio e ha detto che gli sarebbe piaciuto andarsene dall’Hajduk”, fracassando definitivamente ogni certezza della squadra dopo appena una manciata di gare ufficiali.
Il clima, sia in Croazia che nello spogliatoio dell’Hajduk, in quei giorni era torrido e dopo le immagini dei festeggiamenti di piazza diffuse sui media al ritorno in squadra di un fenomeno nazionale come Rakitić – pure lui come Perišić sul viale del tramonto, ma se c’è il talento da quelle parti se ne infischiano del dinamismo – Gattuso aveva bisogno come Ilicic del supporto speciale di un suo fan italiano. Io, nella fattispecie, sebbene nei suoi ultimi mesi da allenatore del Milan, allo stadio fossi stato tra i più insofferenti nei suoi confronti all’interno del mio gruppo di amici.
La prima giornata di campionato si sarebbe giocata di lì a pochi giorni contro lo Slaven Belupo, un rivale che non si prevedeva nemmeno troppo arcigno, e trovare i biglietti non sarebbe stato un problema poiché la scarsa rilevanza del match e il clima teso contribuivano a non alimentare prospettive da tutto esaurito.
C’era solo un problema, insormontabile: Spalato è una delle città nella top ten per overturism (la parola dell’estate 2024) ed entrarci in camper è molto complicato per una certa ostilità della polizia locale – a quanto mi avevano raccontato colleghi camperisti nelle tappe precedenti – verso la categoria. In poche parole, per evitare multe salate, oltre a un costosissimo campeggio vicino al centro, che non prendeva prenotazioni e chiedeva di arrivare la mattina presto senza poter assicurare che ci fossero posti liberi, c’era solo un’altra soluzione in periferia per parcheggiarsi, anche quella superprenotata.
Visto che non volevo gravare con le mie aspettative – lo confesso, completamente campate in aria – sulla vacanza della mia famiglia, avevo quindi concertato di nuovo con mia moglie di passare oltre. Ci sarebbero state altre occasioni di vivere il CALCIO, tutto maiuscolo come vorrebbe Adani.
Dopo un soggiorno in una piccola località di mare, ci eravamo spostati a Imotski, Paese natale di uno dei miei idoli di sempre: Zvonimir Boban. La cittadina, a pochi minuti dal confine Occidentale bosniaco, vanta uno stadio che la BBC ha inserito nella Top 10 dei più belli del mondo, per la vista su un bel castello medievale e sulla dolina carsica che ha creato alle sue spalle uno spettacolare lago ceruleo. Un bar del centro era tappezzato delle foto di “Zorro” con la maglia della Croazia – oltre che di Rebić, che per un paio di stagioni ha militato nelle giovanili locali – così nella mia testa bacata da fanatico di calcio si era fatto strada un altro progetto: avrei visto lo stadio Maksimir di Zagabria, che a differenza di Spalato era ancora sul nostro itinerario di viaggio.
Dopo due settimane trascorse in Bosnia-Erzegovina, tra i soliti muri inneggianti le squadre locali, dai rossi del Velež Mostar ai vinaccia dell’FK Sarajevo – che si allena di fianco al camperstop dove ci eravamo fermati (ma purtroppo non ha ex italiani tra le fila) – e toccanti visite ad alcuni dei luoghi che la guerra degli anni Novanta aveva reso sinonimo di martirio e genocidio, come il tunnel sotterraneo che durante il conflitto collegava la capitale al suo aeroporto o l’infame ex base Nato di Srebrenica, eravamo di nuovo al confine con la Croazia. Stavolta a Nord.
A Banja Luka, capoluogo de facto della Repubblica Srpska a maggioranza serba che copre quasi metà del Paese, oltre a un bar a tema Putin avevo scoperto grazie ai soliti cento e più murales delle vie del centro che la squadra locale era campione della Premijer liga BiH. Un campionato che se fosse stato per la maggioranza serba della regione forse non sarebbe mai esistito.
A cinquantacinque chilometri da lì, a Prijedor, è pure nato Ilicic, tanto per tornare da dov’eravamo partiti. Una cittadina tristemente nota per i tre campi di concentramento che sorgono nelle sue vicinanze a Trnopolje, Omasrka e Keraterm, e che dal 1992 hanno visto rinchiudere tra le loro mura più di trentamila civili, in massima parte bosniaci, tra torture e sevizie. Josip, all’epoca, aveva appena tre anni e dalla loro apertura nel maggio 1992 ne sono passati trentatré, ma il lascito di quell’orrore è in massima parte nascosto o all’interno di terreni privati. Si cerca di dimenticarlo.
Superato con il cuore colmo di emozioni, ben consapevole che il calcio è solo un “grano di senape” per usare un’immagine di Primo Levi, nel grande marasma delle cose umane, ci siamo diretti verso Zagabria e stavolta – me ne sono accertato con anticipo – sia il camping che il giorno della partita erano quelli giusti: alle 21:00 la Dinamo attendeva gli azeri del Qaarbag per il secondo turno di qualificazione della nuova scintillante super Champions. I biglietti si trovano e io, con i miei due figli più grandi, di otto e cinque anni, appena arrivati nella capitale croata ci prepariamo per andare allo stadio. La mamma non è interessata e la piccolina di due, sebbene strepiti per seguirci, è meglio che resti in camper.
Il cielo è terso, il proprietario del camping, che si trova ben lontano dallo stadio, si offre di trasportarci in cambio di un consistente ritorno in denaro – in Croazia l’overturism di cui sopra e l’entrata nell’euro hanno fatto lievitare i prezzi rispetto alla mia ultima visita di sette anni fa – e nulla si frappone tra me e il raggiungimento del mio obiettivo: assaporare il calcio balcanico nel tempio che proprio Boban ha contribuito a cristallizzare per sempre nell’immaginario collettivo. Per chi non lo sapesse, con il famoso calcio volante rifilato a un poliziotto serbo a margine degli scontri seguiti a Dinamo-Stella Rossa del 13 maggio 1990.
Accompagnati dal nostro avido Caronte locale sul viale che da un lato costeggia lo zoo municipale e il meraviglioso parco cittadino omonimo, ci avviamo al Maksimir circondati da un’aria di festa, tra centinaia di persone in maglia blu.
Molti indossano magliette commemorative dei Bad Blue Boys, i tifosi organizzati, che sulla schiena riportano proprio la celebre data degli incidenti del 1990 e che secondo alcuni sono stati la miccia che una volta per tutte ha segnato la fine della Jugoslavia (un altro candidato è il rigore sbagliato al Mondiale italiano dal capitano Faruk Hadzibegic, ma questi sono altri discorsi). Altri, spesso più giovani, indossano le casacche del club con alcuni nomi noti anche a un tifoso italiano, come l’ex Juve Mandžukić, qui dal 2007 al 2010, l’attuale capitano ed ex Bologna Bruno Petković, amatissimo, e addirittura di Luka Modrić, che proprio in quei giorni era trollato sui social con la richiesta di chiudere la carriera Zagabria, dove ha iniziato.
Nessun rimpianto, nessun rimorso…
Tra le tante magliette ne noto una di un giocatore che quasi avevo dimenticato, tra le piege di mille fantamercati e delle serie A che si affastellano, l’ex Juve, Fiorentina, Genoa, Torino e Empoli Marko – ancora – Pjaca. Dopo essere stato martoriato dagli infortuni nella sua esperienza italiana, è tornato in Croazia la stagione scorsa, per vestire la maglia dell’HNK Rijeka, e quest’anno, una volta verificata la sua tenuta fisica, è passato ai campioni in carica della Dinamo per un milione e mezzo.
Dopo essere rientrato in nazionale per un paio di amichevoli pre-Europeo, è stato convocato per il torneo, ma nelle tre partite del girone degli azzurri non ha mai esordito. La notizia del suo ritorno ad alti livelli mi fa piacere, perché al suo arrivo in Italia otto anni fa le aspettative sul suo talento di dribblomane rapidissimo erano davvero alte, ma a differenza di Iličić e Gattuso per lui non nutro particolari slanci. Felice di rivederlo in forze, ma non è Pjaca ciò che vado cercando.
Nonostante le ristrutturazioni del 1997, a guerra finita, lo stadio del 1990 è conservato pressocché intatto, a parte la facciata esterna in vetri specchiati che a prima vista lo fa sembrare ultramoderno solo da due lati su quattro. La struttura “storica” è rimasta, con due tribune su due livelli dall’inclinazione vertiginosa, per limitare una distanza dal campo accentuata da quella che doveva essere stata progettata come pista d’atletica ma che ora è un curioso ovale blu cielo, e due tribune singole, di cui una con una leggermente curvata. Non ci sono invece le curve e arrivando da Maksimirska cesta è possibile scorgere il campo abbastanza chiaramente dietro i cancelli a ridosso del terreno di gioco. Un privilegio raro o impossibile nei maggiori stadi del mondo e che anche qui scomparirà una volta che i nuovi piani di ammodernamento dell’impianto lo faranno assomigliare alle mille cattedrali del gioco in stile “internazionale”.
Avvicinandomi, con pedanteria cerco di raccontare ai miei figli l’importanza di questo luogo per i destini delle guerre che si sono combattute nei Balcani negli anni della mia infanzia, ma senza tenere conto delle mie parole rimangono invece rapiti da un enorme tentacolo blu di polpo che spunta dal terreno in uno spiazzo erboso che costeggia la strada. Ci fermiamo a fare svariate fotografie, e loro si aggrappano un po’ dovunque fingendo che il mostro cinga loro la vita.
Siamo in orario, ma ormai la volontà è quella di cercare altre eventuali chicche di questo tipo, così ignoriamo bellamente targhe, lapidi e murales commemorativi dei fatti del 1990 e ci affrettiamo nel parco Maksimir dall’altro lato della strada, per vedere se il giardino zoologico è ancora aperto. “Sono quasi le otto e mezza” provo a controbattere, ma ormai la strada è tracciata e così rimaniamo folgorati, non letteralmente, dai pali della luce dipinti tipo collo di giraffa e dall’orsetto gigante che troneggia in mezzo al parco e pubblicizza un marchio di gelati. Foto, foto e ancora foto.
Per fortuna lo zoo è chiusissimo, così riesco a convincere i miei figli ad affrettarci verso l’ingresso dello stadio, lì a poche decine di metri, con la promessa di fantastiche e, permettetemi il termine, “porcellose” libagioni normalmente messe al bando o quasi. Tipo patatine fritte, popcorn, caramelle e cioccolati vari: non diventerò padre dell’anno, ma convincerli con il cibo spazzatura funziona sempre.
All’ingresso non c’è una gran coda e la fila scorre rapida. Arrivati davanti ai cancelli mi accorgo con un po’ di magone che chi controlla i biglietti guarda il mio tagliando e ignora l’entrata dei bambini alle mie spalle, lasciandoli attraversare i cancelli indisturbati. Tutto splendido, senonché i loro ingressi mi sono costati tanto quanto i miei e la scena mi rende consapevole del fatto che forse avrei potuto evitare di comprarli. Ma sono solo le osservazioni di un tirchio che in chiusura di un lungo viaggio ha cominciato da un po’ a fare i conti un po’ su ogni centesimo che gli esce dalle tasche.
Per salire ai nostri posti c’è da percorrere una lunga rampa, tipo quelle di San Siro, ma interna allo stadio, ma l’eccitazione nel sentire i cori dei tifosi provenire dalle tribune aiuta a mettere un po’ di voglia di camminare ai miei bimbi. C’è solo un problema: a metà strada è il momento delle pipì, come ogni volta incontrollabili e all’ultimo minuto, così ci affrettiamo verso una porticina malmessa che dà su uno stanzino illuminato da una lampada sfarfallante.
Entriamo in un bagnetto che sembra vittima di un bombardamento, ma le necessità sono talmente impellenti che mi do da fare con salviette umidificate per ripulire alla meglio l’area culminante, sepolta sotto tre strati spessi di polvere e intonaco caduto. Anche questa è fatta. Arrivati in cima, dopo cinque minuti buoni di scalata, mi accorgo che c’erano bagni moderni e perfettamente in ordine – pure molti – ma ormai è tempo di spostarsi sulle tribune. Scoperte, ovviamente, e ha appena iniziato a cadere una fastidiosa pioggerella tipo Maribor: temo raffreddori imminenti, ma per fortuna dura poco.
La metà dello stadio alla nostra destra, una delle tribune doppie, è piena. Quella a sinistra, la tribuna singola, è stata lasciata vuota e vi campeggia solo lo stemma della squadra con la “D” e la sempre presente scacchiera. Di fronte a noi, nella tribunetta curva, c’è un manipolo di una trentina di tifosi coraggiosi giunti in volo dall’Azerbaigian, per tifare Qaarbag, mentre il nostro settore, l’altra tribuna doppia, è pieno fino a scoppiare, soprattutto nella parte bassa, quella riservata ai Bad Blue Boys.
“Papà, esistono ultras bambini” mi chiede mia figlia di punto in bianco. Una di quelle domande a cui non si è preparati, per cui si risponde sempre nel modo sbagliato: “Come idea direi di no, al massimo accompagnano un padre ultras, ma rimangono di fianco tranquilli” provo ad abbozzare.
La partita inizia dopo pochissimo, giusto in tempo di accorgermi che in tasca mi sono rimasti solamente tre euro – veniamo dalla Bosnia e lì si paga in Marchi convertibili – e che non possiamo permetterci i popcorn con il pacchetto decorato con il leone della Dinamo. “Papà, è bellissimo!”.
Il rivenditore fa la spola tra i tifosi e vende un pacco dopo l’altro, così quando provo a chiedere uno sconto mi guarda sconsolato e passa oltre. I bambini rimangono a bocca aperta dallo stupore, ma come a volte capita se si ha dei piccolini, interviene un ultras generoso alle nostre spalle e ci regala l’euro mancante tra ringraziamenti in lingua imparati in queste settimane “Hvala!” e grida di giubilo.
La partita può cominciare: la Dinamo si dispone con un 4-2-3-1 che in teoria dovrebbe esaltare le doti di corsa di Pjaca, esterno destro d’attacco, ma è il Qaarbag a sfondare dopo pochissimi minuti con una percussione centrale che la difesa croata non contiene. I tifosi sono increduli ma l’arbitro annulla e si comincia a cantare qualcosa che, a un orecchio poco propenso alle lingue slave, suona come “Ciampioni! Ciampioni!”.
Ogni azione dei giocatori di casa è sottolineata con un “Bravo! Bravo!” che i miei bambini fanno subito proprio, usandolo a sproposito anche per qualche azione degli azeri. Ma poco importa.
Si mette in mostra soprattutto il ventunenne Baturina, che già immagino di “scoprire” circondato da occhi ammirati in una futura asta di Fantacalcio, ma che poi vengo a sapere Transfermarkt valuta già venticinque milioni. Destinandolo di fatto alla Premier. Con una bella giocata, il giovane trequartista e numero dieci prende la traversa, ma è il Qaarbag a fare la partita e in più di un’occasione si mette in mostra un felino Ivan Nevistic, un metro e novantaciunque di riflessi pronti e agilità che i tifosi Dinamo sembrano apprezzare moltissimo.
Tra mille difficoltà, palle perse e dribbling non riusciti, Pjaca riesce finalmente a farsi largo e su un filtrante prima conclude in faccia al portiere, poi sulla ribattuta segna il suo primo gol con la nuova maglia. Sul tabellone segnapunti appare un video celebrativo in cui assieme a lui compare un altro ex italiano sfortunatissimo ora alla Dinamo, Marko (ancora!) Rog, tra le strade della città vecchia di Zagabria.
“Bravo! Bravo! Bravo!” urliamo ancora, e il primo tempo scivola via così.
Nella ripresa il Qaarbag inizia con il piglio giusto ma Nevistic è insuperabile, il palo nega il meritatissimo gol del pareggio su punizione, e così la Dinamo ne approfitta: escono Pjaca e il suo dirimpettaio, l’albanese Arbër Hoxha, ed entra un certo Kulenovic che subito suscita l’ilarità dei miei figli. La parola “Culo”, per chi non lo sapesse, è tra le più gettonate dai dieci anni in giù e nel nostro caso, come inside joke, la piccolina di due anni l’ha appena imparata e la ripete di continuo.
“Forza Culo!” urla qualcuno di fianco a me… mio figlio. Ma presto ci accorgiamo che Sandro Kulenovic è così celebrato anche dai locali, che non a torto ne decantano le doti ripagati da un’importantissima doppietta in coda alla partita che mette il risultato al sicuro.
Un anziano tutto una ruga in maglia azzurra, un paio di file alle nostre spalle, esulta alzandosi in piedi e agitando sopra la testa un bastone da passeggio di legno: “Papà! Papà! Guarda il vecchino!” ridono i miei figli indicandolo manco fosse lui l’autore del gol. Così tra un sorriso imbarazzato e l’altro mi tocca spiegare ai due energumeni che lo accompagnano che i miei piccoli non stavano ridendo del loro caro nonno, ma che ammiravano la sua tenacia nell’esultanza. Per fortuna finisce così, lost in translation.
Dopo un altro paio di pali e traverse, con le squadre che difendono e attaccano su porzioni di campo simili alle grandi pianure della Slavonia – spero ce ne siano – la partita finisce con Baturina che sbaglia il 4-0 a porta vuota, disperandosi in vista del ritorno. Per sua fortuna anche in trasferta la Dinamo vincerà facile. Uscendo, dopo una sosta confortevole ai grandi bagni del nostro piano, scendiamo circondati da tifosi in festa e ubriachi molesti e a petto nudo sino al settore occupato dai Bad Blue Boys, che incitati da un palestrato a volto coperto intonano cori di festeggiamento tra cui spicca il solito “Ciampioni! Ciampioni!”.
“Papà guarda!” mi urla mia figlia di botto. Tra la folla, come funghi spuntano decine e decine di ultras bambini, a volte a petto nudo come i grandi, spesso intenti a sventolare bandiere o comunque compresi nei cori cantati da tutti gli altri. “Allora vedi che esistono!” mi rinfaccia bonaria. E io, che in quasi trent’anni di stadio non me n’ero mai accorto, sorrido pensando a quante cose solo apparentemente minuscole abbia ancora da imparare nella vita.
Il mio giro dei Balcani mi ha portato su e giù per tre Paesi, mi ha mostrato tragedie e vecchie glorie decadute, campioni in declino o presunti tali in risalita, e alla fine, a margine di una partita comunque divertente diventata indimenticabile per la presenza di due dei miei tre figli (per la piccolina manca poco) mi ha mostrato che il calcio ha ancora un futuro. Grazie ai bambini spero anche dove guerre, odio e paura hanno regnato per anni. Se non è serendipità questa…