Calcio
10 Agosto 2021

Sarri alla Lazio è una rivoluzione

Ambientale, culturale, politica.

Nel 1965 Fidel Castro rende pubblica una lettera scrittagli qualche mese prima da Ernesto “Che” Guevara. El Comandante, sostanzialmente, ha bisogno di lasciare Cuba per dar vita alla Rivoluzione in altri luoghi. Si congeda così dai suoi incarichi rinnovando l’amore per la causa cubana e con la celeberrima frase “Hasta la victoria siempre. Patria o muerte!” dice addio per sempre a quello che è (diventato) il suo popolo.

“El pueblo de Cuba” è stravolto dalla decisione, in particolare lo è Carlos Puebla, compositore cubano, il quale però dalla tristezza ricava una ballata in grado di scaldare i cuori di chi si identificava e identifica con il Che: Hasta Siempre.

“Tu amor revolucionario

Te conduce a nueva empresa

Donde esperan la firmeza

De tu brazo libertario

Aquí se queda la clara

La entrañable transparencia

De tu querida presencia

Comandante Che Guevara”.

Sostituire Maurizio Sarri a Che Guevara sarebbe patetico, ma da sempre i linguaggi del calcio e della politica flirtano tra di loro e si scambiano parole d’ordine: basta vedere il mito di Sarri a Napoli, anzi la narrazione che se ne è fatta. Un uomo di popolo, proprio come Che Guevara. Un condottiero guidato dall’utopia (calcistica).

Figlio di operaio e nipote di partigiano insignito di riconoscimento su carta intestata dalla Casa Bianca, Maurizio Sarri, oltre che alla Rivoluzione del bel calcio, è devoto alla tuta acetata, alla moka del caffè e alla sigaretta accesa. Alle parolacce dette sottovoce in dialetto toscano e al vino, rigorosamente rosso. Naturalmente buono non per la qualità in sé ma per la compagnia con cui lo si beve.



Il 9 giugno Sarri è stato annunciato come nuovo allenatore della Lazio. Una decisione forte, sia da parte sua che di Lotito. La Lazio è la squadra ideale per costruire senza fretta e troppe pressioni la sua idea di calcio; e Sarri è l’allenatore giusto sia per calmare il tifo laziale dopo lo strappo con Simone Inzaghi sia per dimostrare che finalmente sembra esserci l’intenzione di dare vita a un progetto serio e a lungo termine. Inoltre, con Mourinho sull’altra sponda del Tevere si prospettano derby infuocati, capaci davvero di riaccendere nei tifosi quel pathos che negli ultimi anni è andato affievolendosi.

Al di là delle scelte tecniche però la storia di Sarri alla Lazio è interessante perché può segnare un importante cambio di rotta nella storia biancoceleste. Non solo perché ha già vinto diversi trofei, né perché non è uno yes man e il suo profilo è l’esatto opposto di chiunque altro abbia scelto Lotito nei suoi 17 anni da presidente, ma perché rappresenta tutto ciò che il tifoso laziale non è. Innanzitutto da un punto di vista antropologico in quanto, per esprimersi con le parole di Enrico Montesano,

“esse laziali è una cosa un po’ elitaria, un po’ da carbonari”. E questa è la prima grande anomalia: un allenatore devoto al popolo per una tifoseria da sempre devota all’elitismo.



Viriamo quindi sul lato estetico. Dopo i cinque anni di completo di Simone Inzaghi si dà il benvenuto alla tuta di Sarri, uno stile agli antipodi rispetto a quello del tifoso laziale medio. Dallo charme degli Eagles Supporters allo stile (prima di tutto comunicativo) della curva più casual dai ’90 in poi, la Nord laziale (e gli Irriducibili in modo particolare), il vestiario e l’aspetto esteriore dei tifosi della Lazio – perlomeno quelli più mitomani – è uno dei più riconoscibili nel panorama ultras italiano. Più volte fuori dalla Curva Nord sono apparsi volantini in cui veniva rappresentato il vestiario del “buon tifoso laziale”. Cappellino e maglietta di specifici marchi, idem per le giacche e le scarpe (prevalentemente Stan Smith). Accettati solo alcuni colori e al bando la tuta acetata. Chi indossa la sciarpa intorno alla vita, può essere accompagnato alla porta. L’estetica prima di tutto. Anche e soprattutto con dinamiche violente, da clan vero e proprio.

Senza ironia, se Sarri fosse un semplice tifoso intenzionato ad andare a guardare una partita nella Curva laziale, probabilmente non verrebbe visto di buon occhio.

Infine, l’aspetto che appare più ovvio in assoluto: la politica. Nel tifo biancoceleste la politica continua ad essere presente, e che viri verso destra non è un segreto. Al contrario, in particolare per gli ultras laziali, fin dagli anni ’70 –quando per tanti ragazzi la vita era divisa tra sezione e curva – trovarsi “dall’altro lato della barricata” è sempre stato un motivo d’orgoglio e una scelta rivendicata in più occasioni. Anche a costo di apparire esagerati e grotteschi dall’esterno.

L’ultima dimostrazione è proprio di qualche giorno fa, quando il nuovo acquisto Hysaj ha cantato “Bella Ciao” durante il tipico rito di benvenuto nella squadra. Canzone scelta, come ha spiegato anche il suo agente, perché appassionato della serie Tv La casa di Carta e non perché cosciente del significato politico. Nonostante ciò, la risposta del tifo organizzato è stata intransigente: un grande striscione con scritto “Hysaj verme. La Lazio è fascista!”. Un triste episodio che dice tanto, anche troppo, sulla testardaggine di una certa parte della tifoseria biancoceleste, combattuta a colpi di hashtag dal resto dei tifosi (social, per lo più). Da qui però a dire che la maggioranza della tifoseria è di sinistra significa mancare di molto il bersaglio della verità. La storia non si cambia con un hashtag.

Una canzone che è diventata un manifesto

Proprio per questo la sfida del mister toscano rappresenta una doppia prova: sportiva e antropologica. Ancor di più rispetto a quando è andato alla Juventus. Sarà proprio con la Lazio, o meglio dopo la Lazio, che potrà essere considerato a tutti gli effetti il Che Guevara del pallone italiano. E la storia della città eterna può solo aiutarlo. Non per condottieri, imperatori o papi ma perché Roma questa situazione l’ha già vissuta nei suoi vicoli. In particolare, a Vicolo della Campanella 2, dietro Piazza Navona, quando una compagnia teatrale è stata in grado di mettere d’accordo estrema destra ed estrema sinistra.

Parliamo del Bagaglino, che nel 1968 decide di pubblicare un 45 giri interpretato dalla voce romana femminile per eccellenza, Gabriella Ferri, e da quella siciliana di Pino Caruso. La prima cantava Addio Che, la seconda Il mercenario di Lucera, una canzone che parla delle miserie della guerra e che venne ripresa sia dagli ambienti di destra (in particolare gli Amici del Vento) che da quelli di sinistra:

“Ho fatto una bandiera

portatela agli amici

che invecchiano a Lucera

portatela agli amici

che invecchiano a Lucera

Viva la morte mia

viva la gioventù”.

Difficile pensare che Sarrismo e Rivoluzione diventi presto Sarrismo e Reazione, come è difficile che la Lazio dopo 120 anni di storia diventi una roccaforte popolare cambiando lo stile e la politica della stragrande maggioranza dei propri tifosi. Proprio per questo siamo convinti del fatto che la scelta laziale per il neoallenatore sia stata coraggiosa e ardita. Affascinante senz’altro. L’ultimo tassello per confermare di essere il vero rivoluzionario del pallone italiano. Un uomo al quale, a prescindere dalle ideologie e dalla storia personale, anche una tifoseria come quella laziale, completamente agli antipodi dal Che del calcio italiano, sarà in grado di rendere onore. Perché “lasciatemi dire, a costo di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è sempre guidato da grandi sentimenti d’amore”. E quando c’è di mezzo il pallone, in Italia, l’amore fa strani scherzi.

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