Una squadra, un quartiere, un’identità. 115 anni di storia.
Vengo del barrio de Boedo barrio de murga y carnaval te juro que en los malos momentos, siempre te voy a acompañar… dale dale matador dale dale matador dale dale dale dale matadoooor!
Ancora, probabilmente, questo coro non veniva cantato dai tifosi rioplatensi negli anni ‘20 quando il club vinse tre campionati di calcio (‘23, ‘24 e ‘27) schierando un attacco allora definito ciclonico (da qui uno dei soprannomi: “El Ciclón”): Carricaberry, Acosta, Maglio, Sarrasqueta e Foresto.[1] Di quale club stiamo parlando? Beh, di una delle cinque “grandi” del calcio argentino: il Club Atlético San Lorenzo de Almagro, nato proprio ad Almagro ma che pochi anni dopo si trasferirà nell’adiacdente quartiere (barrio) Boedo di Buenos Aires.
Il San Lorenzo nasce il primo aprile 1908 dietro la cappella di Sant’Antonio, inizialmente con il nome di “Los Forzosos de Almagro” (“I Forzati di Almagro”), ma presto cambiato in onore del prete salesiano Lorenzo Bartolomé Massa, che passò buona parte della vita ad educare i ragazzi del quartiere per toglierli dalla strada; ovviamente, senza eccedere in fantasia, il primo soprannome della squadra fu “Los Santos” (“I Santi”). Meno banale il secondo, “Los Cuervos”(“I Corvi”), dal nome della sottana del parroco.
Don Lorenzo, di ovvie origini italiane, decise che i forzati non potevano più scorrazzare per le sempre più trafficate strade della capitale, rischiando incidenti come quello accaduto ad un giovane calciatore che si ferì gravemente, spezzandosi una gamba investito da un tram. Li mise quindi tutti a giocare nel cortile della parrocchia in Calle México, guadagnandosi il loro eterno riconoscimento – nonché quello di milioni di tifosi – il nome della squadra (anche associabile alla battaglia di San Lorenzo del 1813, che fu parte delle guerre d’indipendenza ispanoamericane) e la loro presenza fissa alla messa domenicale.[2] Un discreto bottino.
Per capire cosa significassero (e significano tutt’oggi) i colori azulgrana per chi li indossa, possiamo citare un fatto indicativo degli anni ‘20, precisamente del 1922. Il 6 agosto Jacobo Urso, durante una partita contro l’Estudiantes, si ruppe due costole in uno scontro di gioco. Decise di non abbandonare il campo per non lasciare la squadra in dieci ma le lesioni interne, soprattutto ad un rene, furono irreversibili e nella notte, nonostante due operazioni, morì.[3]
In 7000 parteciparono alla veglia funebre di quel ragazzo che diceva di avere dieci fratelli più uno: il San Lorenzo.[4]
Il club di Boedo è considerato uno dei cinque grandi argentini dal momento in cui l’AFA, il massimo organismo del calcio del Paese, decide di attuare, nel 1937, il cosiddetto “voto proporzionale”, il quale conferisce più potere decisionale alle società con il maggior numero di soci, titoli ed anni di storia. Da lì a poco, nel 1939, in Spagna finisce la guerra civile e per i quarant’anni successivi sarà Francisco Franco a comandare; per coloro che mal sopportano il potere di Madrid – catalani e baschi su tutti – l’Argentina sembra un’ottima destinazione, calciatori inclusi. Ed infatti il primo atleta esule a giocare in Primera División è il basco Isidro Lángara, di professione “idolo del barrio”.
Anche perché, chi esordisce con quattro gol al River Plate nel primo tempo, beh, potrebbe anche permettersi di sostituire il flamenco al tango nelle balere senza pericoli per la propria incolumità.
Il pubblico di Boedo impazziva per lui in quanto come scrive Osvaldo Bayer, «Volevano veder giocare un calciatore cavalleresco, che non si lamentava mai».[5] Un altro esule basco, dotato della stessa nobile tempra, è il mediano Angel Zubieta. Questi due calciatori sì che spostano gli equilibri tant’è vero che, come si narra, i numerosi repubblicani spagnoli – che per lo più tifavano Independiente – a malincuore sono “costretti” a cambiare fede calcistica. Eh no, nemmeno negli anni ‘30 il calcio era “solo un gioco”!
Arrivano poi gli anni ‘50 che, se per la nazionale albiceleste si rivelano anni bui (clamorosa la débâcle ai mondiali di Svezia ‘58: ultimi nel gruppo A con dieci gol subiti ed un pesante 6 a 1 ad opera della Cecoslovacchia nella terza e decisiva partita per il passaggio del turno), per i “Corvi” sono gli anni di un mito cresciuto calcisticamente ad Almagro: José Francisco Sanfilippo.
Un esterno sinistro d’attacco capace di penetrare le difese come una lama calda nel burro, diventando il miglior marcatore della storia del club (215 gol in 266 partite, anche se i numeri sono un po’ ballerini a seconda delle fonti) ed il quinto della Primera División (226 reti in 330 incontri), tanto che si inizia a parlare di San Filippo de Almagro. Vince solo un campionato in quel periodo ma poi torna nel 1972, aggiudicandosene altri due (un Metropolitano ed un Nazionale).
José Sanfilippo, il miglior marcatore della storia del San Lorenzo e uno dei calciatori più rappresentativi del club. Questa foto finì anche su una copertina di ‘El Gráfico’.
Calcio e cronaca nera spesso si incrociano come nel 1964, quando una guardia dell’ESMA (Escuela de Mecánica de la Armada, che diventerà tristemente famosa qualche anno dopo) spara senza apparente motivo alla promessa almagrina Victorio Francisco Casá, che perde un braccio.[6] In compenso trova un soprannome (e gli argentini sono specialisti nell’affibiarne): “El Manco”.
Tornando ai meriti sportivi bisogna andare al 1968, anno in cui il San Lorenzo vince il campionato Metropolitano rimanendo imbattuto ed aggiudicandosi un altro soprannome: “Los Matadores”, ovvero quelli che ammazzano. I murales di Boedo ancora celebrano quell’undici che nel suo periodo dorato (1968-1974) si aggiudica quattro campionati, in cui spiccano i centrocampisti Victorio Cocco e Rafael Albrecht, dietro ai matadores Pedro González, Rendo, “El Lobo” Fischer e Veglio.
Ma alla fine del decennio successivo, il 1979, in pieno periodo di dittatura militare, accade ciò che nessun tifoso – soprattutto se di una squadra visceralmente legata al quartiere in cui è nata e cresciuta – vorrebbe: a causa di una grave crisi finanziaria e dello zampino del sindaco di Buenos Aires Osvaldo Cacciatore, militare e fedelissimo alla Junta, il terreno che ospita lo stadio, il (Viejo) Gasometro, viene espropriato per 900.000$ con l’intento di costruire una rete stradale/ferroviaria (poi mai iniziata). Nel 1983 lo stadio viene così abbattuto e la catena francese Carrefour costruisce lì un supermercato.
Una vera e propria atrocità ma, come si suol dire, “è il capitalismo, bellezza”.
Solo nel 1993, dopo 14 anni di pellegrinaggi in altri impianti, gli Azulgrana ritrovano una casa tutta loro, il Nuevo Gasometro (anche se il nome ufficiale è “Estadio Pedro Bidegain”, ex-presidente negli anni 1929-1930), situato però nel quartiere di Bajo Flores, dove gioca tutt’ora (e dove nacque Papa Francesco). Perché “Gasometro”? perché all’epoca in cui venne costruito, nel 1915, l’impianto era circondato da enormi botti di gas liquido.[7]
Nel 2012, però, scendono in campo i tifosi: in 110.000 si presentano in Plaza de Mayo per chiedere all’amministrazione pubblica di intercedere con Carrefour, e così restituire il terreno della vecchia “cancha” e ricostruirci un nuovo impianto, tornando quindi a casa, nel quartiere di Boedo. L’accordo dopo qualche trattativa si raggiunge tuttavia, ad oggi, ancora si attende l’inizio dei lavori.
Dopo aver nominato il più celebre dei sostenitori dei Santi, non si può non citare uno dei più grandi giornalisti e scrittori di calcio argentini, Osvaldo Soriano (ma non dimentichiamoci, ebbene sì, Viggo Mortensen!) che – parole sue – non scorderà mai il nome dell’attaccante (tale Delgado) che, sbagliando il rigore contro l’Argentinos Juniors, condannerà nel 1981 la squadra alla prima retrocessione della sua storia. Un dramma sportivo che, per fortuna, dura solo un anno, seppure i successi non arriveranno più per un bel pezzo, ben ventuno anni: è solo nel 1995, infatti, che il San Lorenzo si aggiudica il torneo di Clausura con Paulo Silas (vecchia conoscenza in Italia) in mezzo al campo e Rodolfo Veira in panchina.
Arrivano poi altri successi negli anni duemila: il Clausura 2007, con in rosa Claudio Husaín (ex-Napoli) ed El PochoLavezzi, ma soprattutto in panchina il grande Ramón Díaz; poi l’Inicial 2013, schierando Ignacio Piatti (due anni a Lecce), Santiago Gentiletti (Lazio e Genoa) e Leandro Romagnoli, guidati dal tecnico Edgardo Bauza. Quella squadra, sull’onda dell’entusiasmo di aver appena eletto un tifoso (tessera n. 88235) al soglio pontificio, si permette anche il lusso di aggiudicarsi la prima ed unica Copa Libertadores contro i paraguaiani del Nacional. Una Supercopa Argentina, nel 2015, chiuderà quel ciclo.
Giunti a questo punto, rimane solo più un argomento da trattare, ovvero quello più passionale, più genuino: gli hinchas, i tifosi. O meglio: La Gloriosa Butteler.
È il nome del gruppo principale, nato alla fine degli anni ‘80, dovuto dalla piazza in cui si riunivano i tifosi prima delle partite e che li ha resi famosi in tutto il mondo del tifo organizzato. I loro cori, trascinanti ed incessanti, urlati per decine di minuti già da prima dell’ingresso in curva (a proposito, pare che il concetto di “curva” lo abbiamo inventato loro nel 1959, appostandosi in massa dietro la porta…), hanno fatto proseliti in tutto il mondo ultrà, anche europeo ed italiano. Dal Brescia alla Roma al Genoa, chi più chi meno si è cimentato nella composizione di inni in stile “boediano” – ci si consenta il termine – a partire da quello usato qui come incipit.
Certo, alcune barras bravas che imperversano in Argentina sono violente e considerate criminalità organizzata, ma nessuno può negare che la curva del Gasometro sia una delle più calde del mondo. E su YouTube imperversano i video impressionanti dei Los Cuervos sugli spalti, di cui sembra si dica così:
Dicen que estamos todos de la cabeza Pero a San Lorenzo no le interesa Tomamos vino puro de damajuana Y nos fumamos toda la marihuana
e che comunque, in quest’altro coro, sembra si siano anche un po’ affezionati allo stadio “nuevo”: soy de San Lorenzo si señor /que loco soy/ con hinchada yo te quiero ver campeón/ vamos ciclón /el Nuevo Gasometro ya esta/ vamos a ganar/ es cancha nueva otra vuelta quiero dar/ de frente y mal. Ma La Gloriosa non è solo famosa per il suo calore. Nella sua storia ha infatti accumulato parecchi episodi in cui, in un modo o nell’altro, si è distinta.
Si pensi al 1946 quando, alla fine della partita in cui il San Lorenzo si aggiudica il campionato, i tifosi azulgrana invadono il campo di gioco, fatto assolutamente inconsueto per l’epoca. Nel 1968, invece, capovolgono l’auto del presidente perché intenzionato a vendere El Lobo Fischer al River Plate. Nel 1982 vanno in 75.000 a vedere la gara per il ritorno in massima serie, stabilendo un record per la seconda divisione. Il 19 novembre del 2006 impediscono invece lo svolgimento della partita a porte chiuse contro il Racing de Avellaneda.[8]: giusto per ribadire il concetto che, senza i tifosi, il calcio “non s’ha da fare”.
Ed il San Lorenzo de Almagro, senza di loro, probabilmente sarebbe una polisportiva qualunque, magari nemmeno annoverata tra le cinque “grandi” argentine. Una squadra, un quartiere, un’identità. E la frase di Osvaldo Soriano, fedelmente riprodotta sui muri di Boedo, “Uno siempre anda buscando los orígenes, nuestra identidad!”, non potrebbe esprimere meglio questo concetto.
BIBLIOGRAFIA:
[1] O. Bayer, Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino, Roma, Edizioni Alegre, 2020, pag. 34;
[2] S. Mazzi, San Lorenzo, la storia cambiò 4 anni fa, 2018;
[3]S. Mazzi, Jacobo Urso, che diede la vita per il San Lorenzo, 2018;
[4]S. Uccello, A casa del San Lorenzo: viaggio nello stadio e la storia del club, 2022;
[5]O. Bayer, Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino, Roma, Edizioni Alegre, 2020, op. cit., pag.62.
[6]O. Bayer, Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino, Roma, Edizioni Alegre, 2020, op. cit., pag. 105.
[7]C. Cinacchio, Il diario delle Canchas argentine. Racconti, leggende e personaggi dagli stadi argentini, Uborne Publishing, 2020, pag.59.
[8]V. Paliotto, San Lorenzo de Almagro, la gloriosa pasión, Fan’s Magazine n.262, 2012;