Dall'era Clark al Silverstone Two Step di Mansell. La magia del circuito inglese.
Agli inglesi piace fare le cose per bene e forse sarà per questo che, nel 1950, quando regalarono al pubblico della Formula 1 il circuito di Silverstone, finirono con l’aver confezionato uno dei tracciati più affascinanti del panorama automobilistico. È stato da sempre così, specialmente fino al ’91, quando all’asfalto si rimise decisamente mano, ammorbidendo le famose curve Copse, Stowe e Club: tre sorelle che esaltavano all’ennesima potenza l’istinto decisamente poco prudente dei piloti. Ma anche da lì in poi, di sorpassi non ne sono mancati.
In principio fu Giuseppe Farina, detto Nino, ma si deve tornare indietro. Prima di allora, in Inghilterra si era sempre corso negli autodromi di Brooklands e Donington, che da quel momento in poi sarebbe stato invece relegato alle due ruote. Silverstone arrivò a metà maggio del 1950, come prima vera prova di un Mondiale con regolamenti radicalmente diversi. Si era corso già su Pirenei di Pau e in Italia a Sanremo, me entrambe le prove non facevano classifica. Le aveva comunque vinte Juan Manuel Fangio, motorizzato Maserati e destinato a imporsi anche sul neonato circuito inglese. Ma quel weekend i pronostici finirono per infrangersi contro l’Alfa Romeo di Farina. Nino d’altra parte la velocità ce l’aveva nel sangue e l’aveva ereditata fin dalla nascita, a Torino, nel 1906. Il padre d’altra parte era Giovanni Farina, che nel capoluogo piemontese aveva fondato e dato il nome allo stabilimento automobilistico più importante dell’epoca. Non poteva certo essere da meno il figlio, che infatti a Silverstone non solo finì col vincere, ma addirittura dominare, stabilendo la prima vera tripletta della storia: pole, giro veloce e vittoria finale. Tutti gli altri, sarebbero arrivati dopo. Compreso Fangio, che da grande favorito quel primo Gran Premio inglese non riuscirà neanche a correrlo tutto, ritirandosi dopo otto giri, per cause che le cronache dell’epoca attribuiscono alla perdita d’olio della propria vettura. E per il pilota argentino, la complicata relazione con il tracciato inglese era solo all’inizio. Nel ’51 finì infatti per piazzarsi secondo, alle spalle del connazionale Froilan Gonzalez, così come fece anche due anni più tardi: a precederlo era stata la Ferrari di Alberto Ascari, che invece a Silverstone sembrava guidare come fosse a casa propria. Il digiuno di Fangio terminò nel 1956, agli sgoccioli di un Mondiale che El Chueco stava inseguendo e proprio grazie al successo inglese avrebbe ottenuto. Ma non fu una passeggiata. Ormai passato a premere l’acceleratore di una Ferrari, l’argentino partì dalla seconda piazzola, dietro Moss, rimanendovi fino al sessantottesimo giro, quando riuscì a sorpassare il pilota di casa e mettersi in testa, dove sarebbe rimasto fino alla bandiera a scacchi. Dietro di lui, in un curioso pari merito, arrivarono Alfonso de Portago e Peter Collins, entrambi al volante del Cavallino Rampante.
La buona sorte ferrarista proseguì anche in seguito, nonostante Silverstone fosse diventato un appuntamento biennale. Venne infatti deciso di alternarlo prima con la pista del Merseyside, Aintree, poi con quella del Kent, Brands Hatch. Ma per la rossa non sembrò far troppa differenza, almeno finché non iniziò a spingere sul pedale un ragazzo destinato a divenire quanto di più vicino a un’icona: Jim Clark. Un altro figlio della Gran Bretagna, sì, ma non dell’Inghliterra, perché Clark nacque nelle Fife, in Scozia, nel marzo del ’36. Che la sua vita fosse indirizzata verso le corse, inizialmente non lo si sospettava. Fu un innamoramento casuale, scoccato dopo aver provato l’auto di gran cilindrata di un amico della propria ricca famiglia. Da lì in poi, dal volante non si sarebbe più staccato, nonostante le lecite resistenze di padre e madre, appartenenti all’alta borghesia terriera scozzese e intenzionati a far del figlio tutt’altro che un uomo in guanti, casco e tuta. Ma Jim ormai aveva deciso e nel ’60 riuscì a realizzare il proprio sogno, entrando a far parte della Lotus tra le cui fila correva già Graham Hill. Tanto morigerato e riservato fuori, quanto poco avvezzo alle mezze misure all’interno dell’abitacolo, Clark piegò per la prima volta Silverstone alle sue volontà nel 1963. Non che vi fossero dubbi, perché lo scozzese aveva già messo in riga tutti tra Belgio, Olanda e Francia, ma al Gran Premio di casa niente era poi così scontato. Neanche per lui, che infatti in avvio si vide sverniciato Jack Brabham, un altro che proprio piano lì non andava, ma appena quattro giri più tardi l’ordine naturale dei motori era andato con ristabilirsi. Jim non solo vinse, ma salì su gradino più alto di un podio tutto britannico, composto dal ferrarista John Surtees e dall’ex compagno di scuderia Hill. Ma quel pomeriggio non fu che il primo sigillo, per quello che per tutti divenne semplicemente lo Scozzese Volante. Un’anti divo degli anni 60, ma che in pista scacciava via la riservatezza, onnubilato dall’assillo di “correre, scappare e arrivare primo al traguardo”. Tattiche, Clark non ne faceva. A Silverstone vinse nel 1965 e poi ancora due stagioni più tardi. Poco ma sicuro, lo avrebbe fatto anche nel ’68, se il 7 aprile non avesse sbagliato l’unica curva irrimediabile, quella della vita, a Hockenheim, in un Gran Premio di Formula 2 corso per non perdere l’affinità col volante, tra la prima prova del Mondiale in Sud Africa e la seconda, che sarebbe arrivata solamente in maggio. Neanche a dirlo, in quell’esordio sul circuito di Midrand, aveva vinto proprio Jim. E chissà come sarebbe poi andata a finire, ma è poco difficile immaginarlo.
Il testimone dello Scozzese Volante passò però tra le mani di un altro suddito britannico, Jackie Stewart, su Matra prima e Tyrrell poi, finché l’egemonia della bandiera unionista non venne temporaneamente spazzata via. Nel ’73 toccò allo statunitense Peter Revson, due stagioni più tardi al brasiliano Emerson Fittipaldi, un altro decisamente vicino alla filosofia di Clark nel pensare unicamente a essere il primo di tutti gli altri. In un’edizione pazza come quella del 1975, caratterizzata dai costanti cambi climatici di Silverstone, O Rato tenne botta sotto la pioggia e vinse a sole ormai rispuntato, approfittando però dei guasti accorsi a colui che avrebbe di lì a poco ripristinato la dominazione inglese sul Gp di casa: James Hunt. Il bello e maledetto della Formula 1 si prese la corsa nel ’77, in un’edizione a suo modo storica, perché contrassegnata dal debutto mondiale di Gilles Villeneuve. Il talento del canadese doveva però ancora venire fuori. Quella domenica di luglio, infatti, Hunt diede sfogo al tutto il suo tormentato estro. Partito dalla pole, The Shunt vide Watson, l’odiato Lauda e Scheckter passargli davanti, relegandolo alla quarta piazza. Ma da lì prese vita solo la sua rimonta, concretizzata con bravura e fortuna. La prima la utilizzò al ventitreesimo passaggio, alla Copse, passando Lauda, mentre la buona sorte arrivò in soccorso al cinquantesimo giro, quando il capofila Watson ormai già era nel mirino. Ma non ci fu bisogno di duelli: l’Alfa Romeo del Nord irlandese aveva pensato bene di rompersi. Hunt vinse, anche se il Mondiale finì nella mani di Lauda, che invece a Silverstone non avrebbe mai trovato il giusto feeling. In Inghilterra avrebbe sì vinto, l’austriaco, ma solamente a Brands Hatch. Anche perché intanto si era scollinati negli anni ’80 ed era iniziata un’altra era ben poco britannica: quella di Prost. In suolo inglese, il ragazzo della Loira vi si trovava bene. Niente a che vedere col compagno-nemico Ayrton Senna, che da quelle parti avrebbe preceduto tutti solamente nel 1988. Prima e dopo, invece, Silverstone era stata terra di Alain. Il francese iniziò il proprio dominio nel 1983, quando scelse per ben due volte la Copse come arma con cui trafiggere sia René Arnoux che Patrick Tambay. Nelle edizioni successive, la macchina di Prost finì davanti a tutti anche nell’85, nell’89 e nel 1990. L’ultimo acuto del francese arrivò nel ’93 e sarebbe stato anche il record, finora eguagliato da Lewis Hamilton che, neanche a dirlo, domenica potrebbe batterlo e stabilirne uno nuovo.
A tre vittorie staziona invece Michael Schumacher, che però l’asfalto inglese fa suscitare più spavento che emozione. Il tedesco vi vinse sì nel 1998 e successivamente tra 2002 e 2004, ma l’edizione da cerchiare in rosso resta quella del ’99. E non per un alloro. Partiva quarto in griglia, il Kaiser, ma la sua corsa terminò alla prima Stowe, nel tentativo di passare il compagno di squadra Irvine. Sotto le ruote finì invece per ritrovarsi il ciottolato e di lì dritto verso le barriere. Schianto, paura. Poi una mano che spunta dal lenzuolo che protegge i soccorritori dall’occhio delle telecamere: tibia e perone rotti, ma si poteva tornare a respirare. Il fiato rimase sospeso anche nel 1987, in quella circostanza per ben altri e positivi motivi. A Silverstone si corre di il 12 di luglio e già dal sabato si capisce che sarà tutto una questione in famiglia, tra le Williams di NelsonPiquet e Nigel Mansell. Il brasiliano parte in pole e tiene la testa, dietro il compagno di squadra rimane attaccato ma col passare dei giri perde contatto. Pneumatici bizzosi, perdevano pressione. Il Leone torna ai box, cambia gomme. Rientra in pista e di giri ne mancano sì 28, ma i secondi da Nelson sono 29. Però l’inglese inizia a spingere, recupera. Al cinquantottesimo passaggio è negli scarichi del brasiliano e in quello successivo crea il sorpasso perfetto. Lo accosta sull’Hangar, lo passa alla Stowe. Tutto fatto in due passaggi e da quel momento in poi quella manovra avrebbe avuto nome e cognome: Silverstone Two Step. Ma si deve tutto a Nigel, che a casa sue fece gli onori anche nel ’91 e nel ’92.
Toccò poi a due figli d’arte, riuscire in quello in cui i rispettivi padri non erano arrivati. Sul circuito dove Gilles Villeneuve aveva debuttato ma senza mai vincere, il figlio Jacques salì invece sul gradino più alto del podio in ben due circostanze. Una bastò invece a Damon Hill, nel ’94, per scrivere il nome di famiglia nell’albo dove papà Graham non era riuscito. Ma all’epoca del genitore, vigeva ancora la Legge Clark.