Calcio, ciclismo e motori per forgiare l'uomo nuovo fascista.
“Coloro in genere che la domenica trovano molto facile criticare il comportamento dei componenti di una squadra di calcio, rimanendo comodamente seduti sugli spalti di uno stadio, pensano e credono che sferrare dei calci ad una sfera di cuoio riempita di aria a pressione sia la faccenda più semplice e facile di questo mondo. Ma la palla è rotonda e ribelle; il suo controllo risulta, quindi, arduo; e il gioco del calcio, essendo di natura tipicamente collettiva, richiede perciò, in coloro che lo praticano, abilità che non a tutti è dato raggiungere”.
Queste parole, dal sapore elegantemente sarcastico, provengono dalla penna di Umberto Maggioli in un contributo scritto per Le vie d’Italia del marzo 1938, inerente la nascita delle prime scuole calcio italiane. Quattro anni erano trascorsi dal vittorioso mondiale del 1934 ed il pallone si stava affermando come lo sport più popolare della nazione, sotto la spinta e il sostegno sempre più vigoroso del regime e di Mussolini stesso. Eppure la parabola del ventennio fascista e del suo progetto di rigenerazione sociale e biologica degli Italiani, a partire dalle pratiche sportive, non si sarebbe limitata al solo gioco del calcio.
Le parole di Maggioli evidenziano un cambio di passo che sembra quasi generazionale: l’uomo fascista è uomo di sport. A contrapporvisi sono soltanto coloro i quali, “comodamente seduti sugli spalti” si sentono in diritto di ritenere le cose più facili rispetto a come appaiano in realtà. L’esaltazione propagandistica di uno scontro generazionale e persino biologico tra l’uomo nuovo fascista e le vecchie abitudini della borghesia liberale si ritrovavano così riprodotte in ogni angolo dell’Italia in camicia nera, così come nelle colonie d’oltremare.
Proprio nelle province dell’impero, vere e proprie fucine del desiderio del regime di veder ristrutturata l’intera società italiana, trovarono un’evidente manifestazione le spinte al rinnovamento del carattere italiano anche mediante lo sport.
Come sottolineato da Emilio Gentile, il fascismo si assunse il compito di plasmare e forgiare il carattere di uomini e donne secondo il proprio modello di cittadino, «fino a proporsi di creare una nuova razza di italiani che sarebbero nati fisicamente e spiritualmente fascisti […] mirava a realizzare l’identificazione della nazione con il fascismo». Emerge da ciò l’immagine dell’uomo nuovo fascista, quale uomo d’azione, d’istinto e di sentimento, incarnazione di una concezione della vita come lotta e manifestazione della volontà di potenza, fisicamente prestante e pronto per combattere.
Eminente è il caso della Libia, dal 1934 “pacificata” al termine di una durissima repressione, e avente come governatore l’ex trasvolatore dei due mondi nonché quadrunviro, Italo Balbo. Archetipo dell’uomo fascista, instancabile sportivo ed aviatore – e spina nel fianco di Mussolini, tanto che da molti punti di vista la sua promozione a governatore in Libia può essere vista come un esilio dorato – il gerarca ferrarese passò alla storia del colonialismo italiano per aver promosso la gigantesca opera di colonizzazione demografica dei territori della Quarta Sponda.
All’inizio del 1935 fu costituito l’Ente per la Colonizzazione della Libia, nato dalla trasformazione dell’Ente per la Colonizzazione della Cirenaica, che organizzò l’arrivo dei coloni italiani, avvenuta in tre successive fasi (1922-1928, 1928-1933, 1933-1940). Di fianco a questa iniziativa stava il processo di edificazione di una nuova società italiana coloniale, diversa da quella che si riteneva essere tipica del vecchio colonialismo borghese della Libia italiana.
I nuovi contadini della Libia fascista ricevettero, oltre all’appezzamento di terra, un’abitazione, attrezzature ed animali, ma divennero dipendenti in tutto e per tutto dallo Stato e, soprattutto, furono legati a doppio filo al proprio podere dal quale non dovevano allontanarsi (non potevano, infatti, nemmeno aspirare ad un lavoro differente).
Nelle province d’oltremare veniva messa così in atto più compiutamente l’opera di rivisitazione dei costumi borghesi, che avrebbe dovuto promuovere un nuovo modello di italiano in luogo della tradizionale figura del borghese medio, rappresentato ad esempio dalle vecchie élite coloniali. Ne L’Avvenire di Tripoli del 6 gennaio 1935 si segnalava lo spirito di una nuova classe coloniale, plasmata per essere sportiva, in luogo della sedentarietà borghese:
«Gli odiatori dello sport vivono probabilmente in piccole case oscure e polverose, e si mordono le pugna e danno del piede in terra per la stizza ed il livore ogni volta che sentono parlare d’una partita di calcio, d’una corsa d’automobili […]. Siete pochissimi, piccolissimi, e gli Stadi, enormi, echeggiano dell’urlo di migliaia e migliaia di spettatori, attirati dallo spettacolo meraviglioso degli atleti in gara; la gioventù passa per la strada, forte, sorridente, si cimenta nei giochi più arditi, nelle prove più rischiose e ne esce temprata, preparata a tutte le battaglie.»
Lo sport è elemento vitalistico, rappresenta la manifestazione più evidente di una gioventù volenterosa di esprimere le proprie capacità. Rappresenta anche l’anticamera di uno spirito bellico, che alimenta il militarismo dell’Italia fascista e che porterà prima all’invasione dell’Etiopia nel 1935, poi all’entrata in guerra al fianco della Germania nazista, fino al crollo rovinoso del regime.
L’uomo nuovo, giovane e fascista, sportivo e pronto a tutte le battaglie, sembrava trovare la propria palestra ideale nelle attività fisiche promosse dal regime. Il risultato era un confronto sociale ed ideologico tra quest’ultimo e i vecchi rappresentanti di un Italia che, anche in colonia, era destinata ad essere sovvertita dalla rivoluzione fascista.
Tutto ciò emerge chiaramente anche nella pura manifestazione ed esibizione dei corpi: i bagnanti delle spiagge coloniali venivano spesso descritti mettendone in luce i corpi sani, celebrando i maschi bronzei e le giovinette bionde, e mettendo praticamente in ridicolo le signore, rivestite di «anacronistici paludamenti» e gli uomini di mezza età «che tollerano d’aver tanto di pancetta a quarant’anni», i quali «evidentemente non sanno approfittare della vita marina», citando la rivista Libia del novembre del 1938.
La pellicola dell’Istituto Luce celebra le bellezze della Tripoli degli Anni Trenta
Come esprimere da un punto di vista pratico tutta la spinta all’esaltazione dello sport come elemento chiave di rinnovamento della società italiana in colonia? Certamente osservando l’estensione dei cosiddetti consumi collettivi italiani dalla madrepatria alle colonie, che avvenne soprattutto valorizzando i più popolari e seguiti tra gli sport del Bel Paese.
Il tutto per inquadrare lo spazio coloniale entro una cornice di integrazione al territorio nazionale, legando in tal modo le colonie italiane al circuito consumistico e sportivo europeo. Ciò emerge chiaramente nella crescente popolarità del ciclismo anche nella “Quarta Sponda”. Ancora L’Avvenire di Tripoli dedicò ampio spazio alla gara ciclistica Sabratha-Tripoli del 4 agosto 1931, svoltasi in via eccezionale in un contesto serale fino allo stadio di Tripoli:
«Veramente il concorso del pubblico avrebbe potuto essere maggiore; da tempo non assistevamo a gara così accanitamente combattuta per cui quella parte di pubblico sportivo e non, che ha preferito allo Stadio altri ritrovi, ha perduto una bella occasione non solo di vedere come si combatte e si vince ma anche come si sappiano organizzare spettacoli ciclistici serali a Tripoli, dove lo sport è innegabilmente ai suoi primi passi, con quella perfezione che solo si riscontra nei grandi velodromi europei.»
Si ritrovano tutti gli elementi di lessico guerriero e di esaltazione, in una progressiva integrazione del circuito ciclistico coloniale all’interno dei grandi circuiti europei. Culmine dell’espansione del ciclismo in Libia fu però la nascita del Giro della Quarta Sponda, ad imitazione e a completamento del Giro d’Italia:
«Il nascente ciclismo coloniale attendeva la sua affermazione, il suo “giro” ad integrare quelli di molte Nazioni, regioni, province della vecchia Europa. Si attendeva un appello che portasse in queste prove una nota nuova. Tripoli ha lanciato l’appello, ai corridori, alle industrie, alle folle.»
Dall’Italia si allargò alla colonia mediterranea anche la crème de la crème della competizione velocistica: l’automobilismo sportivo. Tra il 1925 e il 1940 si svolsero 14 edizioni del Gran Premio di Tripoli. Nel 1934 fu inaugurato un nuovissimo autodromo presso Mellaha e furono messe in palio ben 80 mila lire; quasi per ironia della sorte, a contendersi i titoli furono quasi esclusivamente automobili tedesche, spesso a scapito delle Maserati e delle Alfa Romeo italiane. Allo scoppio della guerra, sulle rovine dell’autodromo verrà rimesso in funzione l’Aeroporto militare italiano del 1916 e alle Mercedes-Benz guidate dall’asso Hermann Lang succederanno i blindati dell’Afrikakorps di Rommel.
Splendida testimonianza del Gran Premio di Tripoli del 1935
Eppure la storia dello sport italiano in Libia non si riduce alle grandi manifestazioni e agli stadi imponenti, e nemmeno allo scontro generazionale tra giovani fascisti sportivi e vecchi borghesi chiusi “in piccole case oscure e polverose”. In effetti essa è anche una storia di uomini, di sportivi, nati sul suolo libico o in esso impiantati. Alcuni di loro saranno celebrati in maniera clamorosa, come in occasione della vittoria del pugile tripolino De Leo contro il genovese Baiguerra, oppure protagonisti in patria, come nel caso di alcuni calciatori italo-libici. Proprio il calcio rappresenta il culmine e la conclusione della parabola di estensione e di inquadramento della Libia nella società dei consumi collettivi sportivi italiana.
Se al 4 gennaio del 1934 risaliva l’organizzazione del primo campionato di calcio per squadre tripoline, la Coppa Italo Balbo, ben più interessante fu l’arrivo nel 1930 di Nicolò Nicolosi alla Lazio, prelevato dalla formazione dilettantistica cirenaica dell’AGF Bengasi. Nicolosi, siciliano d’origine ed emigrato con la sua famiglia a Bengasi nell’ambito dei progetti di colonizzazione demografica, era dunque un figlio diretto delle politiche fasciste in Libia.
La sua esperienza alla Lazio in Serie A si concluse però molto presto, con due sole presenze ma condite da due gol; andò molto meglio quando “Cocò” si legò al Catania dove, tra il 1932 e il 1937, totalizzò 149 presenze e 71 gol diventando il miglior marcatore della storia del club, avvicinato soltanto da Giuseppe Mascara negli anni duemila.
La storia della Libia italiana era però destinata a concludersi formalmente con l’occupazione inglese e francese del 1943, seguita dall’indipendenza del Paese nordafricano conseguita nel 1951. Per diciotto anni gli italo-libici continuarono a vivere nell’ex colonia, fino all’abbandono definitivo sopraggiunto con l’avvento al potere di Gheddafi con la rivoluzione del 1969. Gli ex coloni furono visti come simboli della durissima repressione italiana perpetrata nel corso di un trentennio di occupazione della Tripolitania e della Cirenaica, quindi furono spinti dalla nuova dittatura ad abbandonare il paese.
Tra questi italo-libici molti divennero delle personalità di rilievo nella cultura e nello sport della madrepatria italiana. Quasi vent’anni dopo l’avvio del campionato tripolino di calcio, giocando e lottando scalzo tra i vicoli della capitale libica, in compagnia dei suoi amici arabi, si formò il più celebre tra i calciatori “coloniali” italiani: Claudio Gentile, nato nel 1953 e destinato a scrivere la storia della Juventus e della Nazionale italiana di calcio.
Anche Gentile fu costretto a lasciare la “sua” Tripoli all’età di otto anni, prima delle persecuzioni di Gheddafi, ma già prevenendo la sua famiglia l’instaurarsi del clima di repressione successivo. E se si vuole trovare una fine alla storia dello sport italiano nella Quarta Sponda, bisogna guardare proprio a lui, protagonista con gli Azzurri della vittoria del Mondiale del 1982, quando a trionfare fu anche un pezzo della vecchia Italia coloniale.
In copertina il Gran Premio di Tripoli 1939 (motoremotion)