Un viaggio in un mondo demonizzato, con Matteo Falcone.
L’antropologo Gustave Le Bon, noto per i suoi studi sulle specificità delle masse, teorizzò che l’individuo in folla acquista un sentimento di potenza invincibile. Inoltre la folla è di per sé anonima, dunque irresponsabile. Il combinato disposto dei due fattori fa sì che l’individuo ceda a istinti che, se fosse solo, reprimerebbe. Oggi, evaporate le grandi pratiche e culture collettive, è difficile trovare una realtà che faccia del potere della folla la sua cifra distintiva più del mondo ultras.
Un movimento da decenni attenzionato morbosamente dai media e represso duramente dalle istituzioni. Movimento che vive, come la nostra intera società, un periodo complesso. Se tratteggiarne un quadro generale può risultare arduo per le persone al suo interno, per gli esterni è cosa semplicemente impossibile. L’ambizione di provare a capirne qualcosa in più ci ha portato a fare una chiacchierata con Matteo Falcone, direttore di Sport People, rivista online da vent’anni punto di riferimento del tifo italiano.
Parliamo di SportPeople: dalla genesi al suo modello organizzativo. Con che obiettivi è nata? Come è stata accolta nel panorama ultras e come viene vista tuttora?
SportPeople nasce nel 2003. Eravamo un gruppo di persone conosciutesi grazie all’inserto di Supertifo, tanti di noi scattavano foto delle tifoserie e c’era un giro di foto tra noi collezionisti. Nel novembre 2003, periodo seguente alla manifestazione ultras alla sede della Lega a Milano (un raduno che coinvolse cinquemila ultras di tutt’Italia per manifestare contro la commercializzazione del calcio, il caro prezzi dei biglietti, lo strapotere delle tv, ndr), abbiamo deciso di creare una nostra rivista su internet, inizialmente un sito vetrina dove settimanalmente pubblicavamo la rivista in pdf.
Internet fu un mezzo all’epoca pionieristico ma anche obbligato dato che la scelta di non lucrarci sopra non ci consentiva di pubblicare a spese nostre. Sport People poggia infatti su un’associazione culturale creata apposta per la testata, siamo senza scopi di lucro, non abbiamo partita iva e dobbiamo rigettare sponsorizzazioni di ogni sorta come quelle dei centri scommesse, cose peraltro contrarie al nostro modo di intendere il calcio.
L’accoglienza del mondo del tifo è stata subito positiva, siamo tutte persone di background ultras con amicizie e collegamenti ramificati. Con l’espandersi di internet e l’avvento dei social siamo decuplicati. Il rapporto con i lettori è buono perché siamo gente col loro stesso vissuto e parliamo la loro lingua. Il nostro obiettivo è equilibrare la bilancia mediatica, raccontare quello che i giornalisti non dicono sul mondo del tifo, né in buona né in cattiva fede. Ovviamente, essendo persone legate a quel mondo, possiamo pubblicare solo parte di quello che sappiamo per preservare i buoni rapporti, usando certe fonti tenendole riservate.
Pur battendo su temi che interessano alla maggioranza degli appassionati (caro biglietti, strapotere delle tv, conflitti d’interesse, critica a pessimi modelli dirigenziali di gestione) gli ultras non appaiono al grande pubblico come una risorsa bensì solo come parte patologica della società – spesso li si bolla con il lapidario “non sono tifosi”. In questo i media non aiutano, anzi. Come se ne esce?
Si è sempre parlato poco di ultras a livello accademico. Il mondo ultras è molto sfaccettato, spesso all’interno della stessa curva. Su San Siro, ad esempio, è dura trovare una persona che possa parlare della questione a titolo della curva di Inter o Milan, perché entrambe le tifoserie hanno idee diverse al loro interno. È un mondo variegato che vive in contesto estremamente emotivo, quello della partita e delle contrapposizioni territoriali. Spesso emergono espressioni fuori dalle righe ma il mondo ultras è molto altro.
Tenta di preservare la cultura popolare del tifo, di mantenere i prezzi dei biglietti a standard accettabili, fuori dal contesto stadio è spesso parte attiva in disparati ambiti di beneficenza – si pensi al periodo del Covid con le collette alimentari e gli ospedali da campo che tanti ultras hanno aiutato a montare a Bergamo. Nei media generalisti però c’è un approccio morboso sul mondo ultras. Si calca la mano su ciò che aumenta l’audience per l’estremità dei momenti, come nel caso degli scontri sull’ A1.
I giornali non arrivano mai a porsi interrogativi del tipo “come mai si sono incontrati? Non si poteva prevedere in qualche modo, magari anticipando o posticipando una delle due partite? Che mancanze ci sono state nella gestione dell’ordine pubblico?”. Raramente c’è un solo colpevole, e i media quasi sempre sottacciono le responsabilità delle istituzioni. Lo scontro nel mondo calcistico esiste da prima degli ultras, la violenza allo stadio è sempre esistita. Del resto parliamo di masse abnormi di persone nello stesso luogo eccitate dal momento agonistico che prevede una loro contrapposizione sul campo, e spesso a inasprire le cose ci sono secolari rivalità territoriali.
Gli ultras hanno radicato tutto ciò con la mentalità dello scontro come ulteriore contrapposizione, e non hanno mai negato questo aspetto. Ma cercare di capire i motivi che stanno dietro la violenza non vuol dire mitizzarla. Ovviamente però non c’è solo quello, c’è anche l’aggregazione e il lato sociale di essere ultras, se poi questo mondo ha una colpa (che non è quella dello scontro, perché fa parte del loro modo di essere e sono pronti a pagarne le salate conseguenze) è quella di trincerarsi. Quando si sente attaccato, smette di comunicare. Il mondo ultras comunica poco e male, e trarrebbe vantaggio dall’essere meno elitario.
Spesso gli ultras hanno supportato le proteste della società civile. E una frangia della popolazione potrebbe avrebbe interesse ad avvicinarsi al mondo ultras per battaglie comuni (es. il numero identificativo sui caschi dei celerini). Pensi che si possa dialogare meglio con certi mondi, e studiare il loro modus operandi nei rapporti con media e politica?
Il mondo ultras da una parte pecca di elitarismo ed è acerbo con la comunicazione, in Germania sono molto più avanti nella gestione dei social. Qua si usano un po’ più di prima ma si fa confusione, a volte ci si autoaccusa invece di discolparsi, ci si barrica dietro slogan con i quali non si viene a capo di nulla. D’altro canto il mondo ultras ha una grande correlazione verso il mondo della strada. Ha mutuato queste formule con codici secondo i quali non è etico o normativamente giusto parlare con l’esterno, senza rendersi conto che questo porta a rappresentarti come eterna vittima. E quando uno vittima si fa il lupo se la mangia.
Se ti accolli solo il peggio e non sai comunicare il meglio allora è tutto in salita. In più quello del tifo è un mondo germogliato nel periodo dell’eversione politica, quindi ha in sé sia l’allegoria della strada che della piazza. In altre nazioni europee riescono a pensarsi in due modi diversi. In Germania le tifoserie rivali il giorno della partita non si risparmiano nulla, ma quando si tratta di difendersi in tribunale contro la Lega sanno unirsi per accreditarsi anche livello istituzionale, noi non riusciamo a pensarci in quel modo.
Abbiamo avuto tentativi tipo il Movimento Ultras, sigla che tentava di portare avanti battaglie comuni, però non ha attecchito. Già inizialmente molte tifoserie non aderirono sostenendo che essere ultras è solo rappresentarsi allo stadio, e ti giochi una fetta. Poi chi ha aderito è stato capace di frazionarsi a sua volta, creando un’altra sigla come Basta Abusi. Sono mille micromondi che si atomizzano e non riescono a fare rivendicazioni. Da un lato non è nostra attitudine riunirsi e pensarsi come parte sociale, dall’altro quando lo facciamo non riusciamo a non far prevalere i campanili territoriali o ideologici.
Questo si riverbera anche sul fatto che in Italia, Nazione che ha vinto 4 mondiali e 2 europei, e che ha dato i natali al movimento ultras, un progetto come gli Ultras Italia non sia riuscito a decollare?
Qui pesa la sensazione che dietro ci fosse una componente marcatamente politica. Era il periodo dell’affermazione del movimento casual, che per quanto potesse far alludere a una certa area ideologica era molto trasversale, e inizialmente molti di questi si erano curiosamente avvicinati. Ma poi sono venute fuori comunque le distanze ideologiche che hanno reso vana questa possibilità di amalgama e di allargamento della base. Ho guardato con curiosità alla cosa, pur non avendo quel retroterra politico speravo potesse nascere qualcosa di nuovo e che si riuscisse finalmente ad uscire da quello schema ideologico.
Poi però quando arriva lo striscione sullo ius soli o su altri temi politici, è inevitabile che tematiche così divisive finiscano per l’appunto per disgregare. Senza contare che sono poi cose su cui la stampa sguazza, screditandoti verso il pubblico generalista, e la presunta apoliticità non riesce a essere credibile. Io poi non sono un fan della politica allo stadio perché è ulteriore elemento di divisione, anche dentro stessa tifoseria. Ci sono casi che fanno eccezione nei quali l’ideologia è invece un collante, ma per me meglio non ci sia.
Veniamo ai recenti fatti di Roma e dello striscione sottratto ai Fedayn. Tu hai scritto che “in un paradigma tutto freudiano, quella dei serbi è stata probabilmente un’azione volta ad uccidere il padre”. Segno di una differente vitalità tra le due scene ultras? Molte tifoserie italiane poi hanno condannato il gesto secondo codici non scritti. Ma ripensando al modus operandi degli ultras delle origini, non è una presa di posizione che denuncia un imborghesimento del movimento?
A nostro tempo facemmo cose analoghe contro gli inglesi, che consideravamo i nostri maestri. Tra fine anni ’80 e inizio ’90 volevamo dimostrare ai nostri “padri” che eravamo i migliori. Il mondo dell’est è certo più in forma di noi, ma lo si sapeva da anni. Oggi anche le nostre curve più in forma quando vanno nel centro est Europa soffrono l’impatto. Persino nella ridente Svezia non è mica facile misurarsi. Come scena siamo indietro perché loro sono più giovani, sia come movimento generale che come sua composizione. Fatichiamo a fare un adeguato ricambio generazionale.
Complice l’imborghesimento generale, il ragazzo di oggi ha molti diversivi oltre la curva ma soprattutto il gioco non vale la candela per lo smodato apparato repressivo attuale. C’è una notevole sproporzione tra delitto e pena, è un gioco al massacro. Per fortuna chi ha tempo e soldi per andare fino al Tar contro provvedimenti ai limiti della costituzionalità come il daspo spesso ottiene ragione, ma è una vittoria di Pirro perché la diffida, con i tempi della giustizia, intanto l’ha scontata. Poi i detrattori dei romanisti o del movimento ultras ti diranno che anche negli altri paesi c’è la repressione, ma non certo come da noi.
Uno dei nostri ragazzi scrive dalla Romania e parlandoci di scontri avvenuti nel derby Bucarest raccontava di un poliziotto a terra in una pozza di sangue: il ragazzo responsabile del pestaggio è stato arrestato, ma è tutto passato sotto silenzio perché lì, con problemi ben maggiori, non frega nulla a nessuno di quelle cose. Vivono il momento che noi vivevamo negli anni d’oro, lo stadio è una decompressione delle tensioni sociali. I Delije appena rubato lo striscione hanno subito scritto: se voi italiani provate a fare da noi numeri del genere, sappiamo già tutto prima del vostro arrivo, dove alloggiate, quanti siete.
Da loro c’è una corruzione altissima e la connessione tra istituzioni e criminalità è tale che, a parti invertite, i serbi avrebbero avuto accesso a informazioni e contatti che ai nostri ultras sono preclusi, o dai quali si autoescludono, in ottica di recupero dello striscione. L’altro lato della medaglia è che nel centro/est Europa hanno sì grandi centri, però è anche vero che qui da noi c’è una notevole diffusione del fenomeno nei piccoli centri oltre ai picchi delle grandi città; questo da loro non esiste. Qua gli ultras li trovi ovunque e in ogni categoria, là solo nei grandi poli calcistici.
Tentando di capire quanto gli ultras siano realmente un pericolo sociale mi sono divertito a fare un calcolo, approssimativo e impossibile, moltiplicando l’affluenza media a partita per decennio della Serie A degli ultimi 70 anni per il numero di partite giocate. Grosso modo 30 milioni di persone. Dal 1920 in Italia ci sono stati “solo” 31 morti legati al calcio, dei quali 4 per mano diretta della polizia. Insomma, circa uno su oltre un milione.
È un dato che ridimensiona molto il problema. Non pensi allora che il movimento ultras esprima una parte di società inconsciamente dotata di un certo equilibrio, dato che, consapevole dell’impossibilità di reprimere quel minimo di aggressività ancora (non) lasciata al singolo, decide di sfogarla in un ambiente contenuto come lo stadio e le sue adiacenze in giorni prestabiliti, persino con dei codici ben precisi?
Del resto l’aggressività è una componente fondamentale e vitale dell’essere umano, che se compressa a dismisura risalta poi fuori come una molla nelle forme più mostruose. Come dice Massimo Fini, citando Guido Ceronetti, senza valvole di sfogo si rischia di finire con i più classici “omicidi delle villette a schiera”…
Alessandro Dal Lago in “Descrizione di una battaglia” ha fatto il tipo di calcolo che hai fatto tu, giungendo alla conclusione che, a dispetto di quel che si legge, osservando i freddi dati è folle vedere quanto raramente le cose deviano dalla norma allo stadio. In termini percentuali avvengono più scontri in situazioni con meno spettatori come concerti e discoteche, scenari con minor tensione emotiva che allo stadio, dove la pressione è massima anche per la contrapposizione di due masse di tifosi esaltate da diversità sportive, territoriali, ideologiche.
Per Dallago è sbalorditivo che ci siano così pochi scontri in rapporto alla massa e al suo stato emotivo. Negli ultimi anni sono ulteriormente diminuiti, e accadono molto più fuori che dentro lo stadio. Faccio anche una considerazione maligna: è grottesco notare come gli scontri negli stadi si siano quasi azzerati da quando hanno messo a presidio una forza laica come gli steward al posto della polizia. Su quanto tenere aperte le porte dello “sfogatoio stadio” aiuti a depotenziare la violenza sociale non saprei dire, è un’analisi difficile. Di sicuro nella società attuale c’è una forte stigmatizzazione della violenza.
Quando io ero ragazzo potevi beccarti lo schiaffo dal prof come per strada, ma il rapporto con la violenza era spesso simbolico, non aveva una coda materiale particolarmente pesante. La società del nuovo millennio ha bandito tutte queste forme di violenza in modo indiscriminato senza distinguere cosa sia violenza reale e cosa violenza simbolica. Multare società per i “cori territoriali” è all’ordine del giorno, c’è chi viene minacciato di daspo solo per portare allo stadio sciarpe in onore dei diffidati. Tra un po’ non si potrà nemmeno cantare contro gli avversari. Stigmatizzare la violenza è un discorso anche legittimo, ma è stato esteso a ogni forma anche solo simbolica e così ormai si vede violenza e razzismo ovunque.
Quando aizzi la caccia alle streghe poi le streghe nascono e crescono ovunque, Voltaire non a caso disse che le streghe hanno smesso di esistere quando abbiamo smesso di bruciarle. C’è stata l’applicazione stupida di un concetto giusto che ha annichilito altre espressioni del tifo ed è rimasta la violenza. Se per portare allo stadio uno striscione becero su Superga sono certo della diffida, allora, se proprio mi devo giocare il jolly, vado a scontrarmi. Non so dirti cosa accadrebbe se si depressurizzasse lo stadio, ma so che se la smettessero con la repressione indiscriminata si otterrebbero risultati migliori.
Negli ultimi vent’anni all’interno del mondo ultras si è spesso parlato di crisi e persino di fine del movimento, eppure non credi ci siano molti segnali dai quali risulta, anche in tempi di dura sorveglianza come quelli odierni, vivo e vegeto?
Di fine del movimento se ne parlava molto ai tempi della tessera del tifoso. In generale poi c’è la cronica tendenza del vecchio a biasimare il giovane perché accetta regole che lui non accettava, ma sono semplicemente cambiati i tempi, tu non accettavi quel compromesso perché ai tuoi tempi non te l’avevano posto. Di sicuro c’è del fuoco che cova sotto la cenere, il periodo post covid ha svelato un’inaspettata primavera che ha stupito anche me. Molte presenze allo stadio, grandi coreografie, vari “momenti di esuberanza”. Per me è rinfrancante vedere che sappiamo sempre rinnovarci.
Poi, fuori dal contesto stadio c’è una pacificazione coatta che ha reso talmente piatta la realtà di tutti i giorni che porta a un morboso accanimento verso il mondo stadio, eppure oggi l’ultras non ha più nemmeno la forza di portare dentro qualsiasi striscione voglia. Per quanto sia pesante la repressione, fin quando vedi uno spiraglio che ti fa restare al tuo posto esprimendo una voce avversa al sistema è segno che il movimento continua ad esistere.
Il manifesto sul tifo si può acquistare qui
Questo a prescindere da quel che dicono i vecchi, che bollano chi va allo stadio come un colluso, c’è ancora tanta gente che avversa e lotta contro il sistema, solo che i vecchi avevano le mani molto meno legate. Farlo oggi è ancora più degno di ammirazione perché si rischia molto di più di un tempo. Poi socialmente viviamo in una società molto atomizzata, e il solo fatto che esista un movimento che fa uscire la gente e aggrega in un mondo disgregante è cosa degna di lode
Per concludere, a vent’anni dalla sua creazione, che bilancio faresti di SportPeople?
Per quanto riguarda la rivista, beh anche tu scrivi, quindi conosci la sensazione di pace dell’anima quando finisci un pezzo, del tipo “ho detto quel che volevo dire”; però non sei mai appagato, sarai sempre spinto dalla voglia di raccontare altro. Certo, il bilancio è positivo perché vent’anni sono tanti, noi siamo cresciuti molto e il movimento nel frattempo ha attraversato così tante fasi: dagli ultimi colpi di coda del periodo d’oro ai casi Raciti e Sandri, passando per la tessera del tifoso
Però la voglia e la necessità di raccontare ancora e di farlo sempre meglio rimangono. Anche perché già è frustrante la difficoltà di parlare agli ultras per la poliedricità di questo mondo, ma la cosa più dura è parlare all’esterno. Quando riviste non del nostro ambito ci vengono a chiedere conto di alcuni dei temi che analizziamo, per noi è sempre motivo di grande gratificazione. C’è la sensazione che abbiamo fatto qualcosa di buono, di aver saputo comunicare qualcuna delle molte istanze positive che il variegato mondo ultras continua, nonostante tutto, a rivendicare.
foto di copertina Simone Meloni