Una carriera contraddittoria ma circolare, divisa tra estetica e ambizione.
Se c’è una peculiarità che, più di tutte, ha contraddistinto lo stile di gioco di Robin Van Persie, questa è senza dubbio la bellezza. Gran parte del merito va attributo ai genitori, il padre Bob (scultore dedito principalmente alla lavorazione della carta) e la madre Josè Ras (una eclettica pittrice di discreto talento) che fin dall’infanzia, ad una dimensione estetica, lo hanno educato. Della signora fu non a caso la decisione di trasferire la famiglia nei sobborghi di Rotterdam, nel suo quartiere più malfamato per la precisione, Jaffa, per poter assaporare le vibrazioni uniche che emetteva.
In questo periodo il giovane olandese si rese conto di aver sviluppato una particolare attitudine, quasi possedesse un qualche dono: un’intelligenza diversa da quella canonica, come indicavano certi studi della neuropsicologia, e che finiva per declinarsi sul campo in passaggi illuminanti e azioni pensate in anticipo. Alla rubrica di Sky I Signori Del Calciodichiarava in merito:
“Forse è per come funziona il mio cervello, sul campo vedo cose che altri non vedono. Ad esempio i miei genitori vedevano la bellezza di un albero, ma io non riuscivo a vederla. Avevo tutto un altro tipo di modo di pensare”.
Ce lo immaginiamo scorrazzare tra le strade di Jaffa, all’epoca popolata quasi interamente da famiglie di colore e di etnia araba, unico bianco che, tra porte improvvisate e pericolosi slalom per evitare le vetture incombenti, doveva guadagnarsi il rispetto dei coetanei a suon di grandi giocate. Una palestra calcistica ormai in via d’estinzione e che ha forgiato giovani di tutto il globo.
“Le basi del calcio le conosci solo giocando in strada: passare la palla, il primo tocco, o fare semplicemente gol. Non giocavo per migliorarmi, ma perché mi piaceva davvero”.
Il naturale passo successivo fu quindi approdare all’academy dell’Excelsior, squadra cittadina che incoraggiava uno stile di gioco creativo ed in cui ha potuto muovere con libertà i primi passi nel mondo del calcio. Un’esperienza tutto sommato breve dato che a soli 17 anni venne prelevato dal Feyenoord, l’altra compagine locale, ma sufficiente perché gli venisse intitolata addirittura una tribuna dell’impianto di casa.
È il 2001 e lui, classe ‘83, da poco maggiorenne, alla prima stagione tra i professionisti porta a casa niente di meno che un’Europa League. Inserito come ala sinistra, fin da subito fa intravedere sprazzi di talento che lo autorizzano a chiedere di diventare il tiratore delle punizioni (richiesta istantaneamente rispedita al mittente, lui che era un esordiente in uno spogliatoio di giocatori sul viale del tramonto). Per qualche stagione una versione acerba di Van Persie corre il serio rischio di finire sull’eterna lista delle promessenon mantenute, destinate a girovagare nella periferia calcistica per via di un carattere difficile da maneggiare.
A rimetterlo sulla diritta via – quasi – smarrita ci pensa il provvidenziale intervento di tal Steve Rowley, osservatore dell’Arsenal, inviato in Olanda per studiarlo e rimasto folgorato da una sua rete contro l’Ajax. Una di quelle sliding doors da film hollywoodiano che almeno una volta nella vita capitano a tutti, nei luoghi e nelle modalità più particolari: a questo giro è un hotel, più precisamente il suo bar, l’epicentro dell’incontro destinato a cambiare la carriera di Robin.
Rowley è al bancone quando Bob Van Persie, che incredibilmente alloggiava lì, resosi conto di chi fosse, tenta il tutto per tutto buttandosi come un pokerista in un disperato all-in. Lancia sul tavolo un’imminente firma del figlio con il PSV, mettendo in questo modo spalle al muro l’inglese che, ancora abbagliato dai numeri che aveva appena ammirato, abbocca al bluff: l’estate del 2004 l’attaccante si trasferisce alla corte di Arsene Wenger.
Arsenal, la bellezza insostenibile
Così inizia la storia di Van Persie che ricordiamo; divisa dell’Arsenal e poi fascia di capitano al braccio, a segnare in lungo e in largo per l’Inghilterra. Cucita addosso come una seconda pelle, la maglia dei Gunners rappresenta un legame di simbiosi quasi totalitario: con la città, le abitudini, la tifoseria e l’allenatore, quest’ultimo fondamentale per la definitiva maturazione. Ai tempi la rosa biancorossa poteva contare su nomi che avevano scritto la storia del club, autentici pilastri dotati di grande carisma come i vari Vieira, Pires, Bergkamp o Henry. Per questo motivo, le probabilità di collisione risultavano per una testa calda come l’olandese esponenziali.
È in questo frangente che Wenger dimostra grandi abilità da gestore e psicologo, prendendo Robin sotto la propria ala protettiva e fornendogli tempo ed opportunità per inserirsi al meglio. Celebri i colloqui in cui si isolavano, mettendosi da parte per ore a parlare di tutto fuorché di calcio. L’humus perfetta per far fiorire le potenzialità del giovane attaccante, inserito gradualmente al centro del progetto e trasformato in un uomo e in un calciatore nuovo.
“Wenger è il mio padre calcistico, mi ha formato come uomo e come calciatore”.
Così negli anni successivi, quando vengono a mancare rilevanti figure all’interno dello spogliatoio, Van Persie si sente pronto per salire in cattedra e diventare punto di riferimento per il resto della squadra. In particolare sviluppa una fruttuosa connessione con Song e Fabregas, geometri del centrocampo («era come se mi osservassero e volessero passarmi la palla in ogni momento») che contribuisce alla sua scalata verso le 100 marcature con la compagine londinese, stoppata solamente a 4 gol dal traguardo.
Nel frattempo la cineteca personale va sempre più arricchendosi di una folta serie di perle pregiate. Prendendone in prestito un paio, abbiamo la possibilità di ammirare una particolare specialità ripetuta in varie declinazioni: il tiro al volo, per gli inglesi “volley”. La casa offre il gol del 2006 sul campo del Charlton e quello fra le mura amiche dell’Emirates, riservato qualche anno dopo all’Everton.
Nel primo caso siamo di fronte a una conclusione di difficoltà incalcolabile dal momento che, per calciare quello spiovente proveniente da destra, Van Persie deve compiere una torsione irreale ruotando di 180 gradi, con la gamba sinistra mantenuta all’altezza delle spalle: non un gesto casuale, però, ma insito nel suo inconscio, come ha confessato di recente. Durante il precedente ritiro estivo di Marbella, infatti, aveva riprodotto di continuo e dal bordo di una piscina esattamente quella sequenza, colpendo il pallone allo stesso modo ma finendo rovinosamente in acqua.
Il secondo consiste invece in un affondo di sciabola, un colpo secco con cui spedisce nell’angolino basso il passaggio millimetrico di Song, assitman prediletto. Detto così appare facile, ma provate a farlo defilati sulla sinistra e di conseguenza ostacolati nell’osservare la palla che arriva velocemente da dietro.
I supporters biancorossi, tuttavia, si rendono presto conto che quei colpi di classe non portano il club a vincere nulla di rilevante: si rendono conto, loro malgrado, che ogni annata qualcosa è destinato ad andare irrimediabilmente storto. Manca la famosa concretezza, ingrediente fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi e assente proprio nei momenti decisivi, in quelle partite in cui servono il carattere e le iniziative personali per sbrogliare la matassa.
“Avessimo giocato il campionato solo contro le top 6 avremmo potuto vincere, ma regalavamo sempre punti alle piccole: era frustrante, da un lato avevi paura di fallire, ma dall’altro avevi voglia continuare a crederci”.
Negli anni, intramezzati dalla splendida saga degli Invincibili, i Gunners vivono il proprio contrappasso passando dal boring Arsenal ad un club eternamente incompiuto. Van Persie in tal senso era in totale simbiosi con la sua squadra, così straripante di estro e talento, ma allo stesso tempo carente di quella cattiveria necessaria alla vittoria. Robin e i suoi compagni incarnavano un’estetica insostenibile, si perdevano in azioni da far stropicciare gli occhi, sembravano nel rettangolo verde jugoslavi e tenevano fede a un loro storico detto: umirati u lepoti, morire nella bellezza.
Man Utd, il patto con il Diavolo
Queste sono le premesse che spingono Robin Van Persie a consumare il “grande tradimento”, in primis nei confronti di se stesso: basta con la meravigliosa ma inconcludente estetica pallonara, sì alla rivalsa e al pragmatismo. Anche un’autocritica forse, un’antitesi dopo la tesi, la voglia di andare oltre una certa natura che così bene si era sposata con quell’umorale club in otto anni di brillanti fallimenti. Così, nell’estate del 2012, lo vediamo seduto in conferenza stampa accanto a Ferguson. L’obiettivo è uno solo, in risposta al titolo conquistato dai cugini del City la stagione precedente: vincere.
L’effetto lo conosceranno bene i tifosi del Napoli, colpiti a morte dall’abiura del sarrismo di Higuain qualche anno più tardi. Van Persie nasconde le stesse motivazioni (va bene il gioco, ma voglio la gloria sotto forma di trofei), e consegna dichiarazioni di una retorica esasperante: «il bambino dentro di me invocava il Manchester United»; il mondo Gunners opta per apostrofarlo con un più edulcorato “liar” al posto del “lota”, divenuto un mantra per i vicoli partenopei.
Spinto da un’accecante ambizione, e con il ciclo di Sir Alex giunto a fine corsa, l’olandese mette tutto se stesso al servizio della causa, riuscendo finalmente a conquistare il tanto agognato titolo nazionale. Una transizione violenta e perentoria, come quella di Anakin Skywalker in Darth Wader: l’olandese cambia radicalmente pelle, mettendo da parte il passato di “bellissimo perdente” per votarsi ad una totale abnegazione.
“Essendomi lasciato in quel modo dovevo dimostrare sempre di più. Agivo e pensavo come una macchina, tutto ruotava intorno al fatto che dovessimo vincere”.
A fine stagione lo straordinario sforzo profuso dà i suoi frutti: annata da protagonista con ben 26 reti e, per la seconda volta consecutiva, primato nella classifica marcatori. Gli anni a venire, in un impero macedone privato di Alessandro Magno, palesano nel mondo United un enorme vuoto di potere che provano a colmare Moyes prima e Van Gaal poi, senza però mai riuscire a tornare ai fasti di un tempo.
La periferia e il ritorno a casa
Giunto alla soglia dei 32 anni, in piena parabola discendente, l’olandese capisce che è giunto momento di lasciare l’Inghilterra per quella periferia calcistica che, se non avesse trovato Wenger sulla sua strada, avrebbe rischiato di frequentare ben prima. Al Fenerbahce, come quei campioni che hanno alle spalle gli anni migliori ma con in serbo le ultime cartucce di talento da sparare, è in grado di fare ancora la differenza. L’eredità consegnata al caloroso pubblico turco si rivela di tutto rispetto: una media molto più che dignitosa (25 gol in 57 presenze) ed una perdita della vista sfiorata, a seguito di uno scontro per il quale subisce la lacerazione ed il sanguinamento della palpebra sinistra.
Una carriera di tale portata, però, non può terminare in un campionato senza tradizione calcistica che annovera compagini come il Malatyaspor o il Denizlispor. E allora Van Persie, con la giusta dose di romanticismo, sceglie di darle una forma perfettamente circolare, tornando a vestire dopo 14 anni la maglia del Feyenoord lasciata nel pieno della sua gioventù – e riacciuffata con qualche capello bianco in testa. In una stagione e mezzo è anche in grado di togliersi lo sfizio della Supercoppa d’Olanda, suo ultimo trofeo, e di centrare il prestigioso traguardo della centesima presenza in gare ufficiali con i biancorossi.
L’ultima partita si celebra una domenica di metà maggio nella rassicurante cornice di un De Kuip vestito a festa, fra le cui mura Van Persie aveva assaporato le prime sensazioni da calciatore vero. Dopo il giro di campo di rito Robin saluta i tifosi e per l’ultima volta raggiunge il tunnel per gli spogliatoi, sempre con la solita camminata dinoccolata che, insieme con il sinistro vellutato e chirurgico, sono diventati iconici quanto il Bat segnale puntato sui cieli di Gotham. La differenza, in questo caso, è una sola: come recitava il celebre striscione ai tempi dell’Arsenal
Il Leicester è l'ultima squadra inglese sopravvissuta in Champions League ed è anche la nostra unica speranza di veder trionfare il vero calcio inglese, quello delle vecchie abitudini, di una classe operaia ormai stuprata da soldi e idealisti del pallone.