Papelitos
27 Gennaio 2020

Quando il calcio oscura la morte, lo sport muore

Kobe Bryant è morto e la stampa sportiva italiana si vergogni.

Se il livello di civiltà si misurasse solamente nel momento del cordoglio, noi Italiani saremmo degli ipocriti senza appello. Siamo capaci di santificare chi nella vita terrena è stato tutt’altro che un esempio e, al contrario, trascuriamo il saluto a chi ci ha insegnato qualcosa, a chi più a chi meno. La morte di Kobe Bryant è un trauma umano, come logico che sia, e sportivo per il ruolo rivestito durante la sua carriera, per quello che ha significato per milioni di persone.

 

 

Un esempio da emulare, una spinta a far meglio. È stata l’incarnazione dell’arte per alcuni, mentre chi non è particolarmente coinvolto nel mondo della palla a spicchi si limita a santificare il solo talento. D’altronde, per riconoscere l’importanza di una persona, basta semplicemente osservare la reazione che la gente ha quando la vede. Ma specialmente quando questa se ne va.

 

Se dovessimo basare quanto Mamba ha significato per l’Italia sulle prime pagine dei nostri quotidiani sportivi, avremmo una realtà modificata.

 

La sua morte è stata subordinata ad una domenica pallonara qualunque, di quelle che possono ripetersi in qualsiasi giornata di campionato. Il tonfo juventino di fronte all’orgoglio partenopeo sembrerebbe attirare di più della doverosa commemorazione a una leggenda dello sport, qui da noi quasi ignorato seppur amato da milioni di appassionati italiani. I nervi tesi della squadra di Conte o gli errori che condizionano un derby fanno discutere più del sacrosanto cordoglio per uno dei migliori sportivi della nostra epoca. Un trafiletto in alto: questo è quanto si è meritato Kobe per la nostra stampa.

 

La prima pagina della Rosea, quotidiano meneghino da sempre vicino al mondo extra calcio (ciclismo su tutti) e faro anche per il movimento cestistico italiano. Quotidiano celebre in tutto il mondo ridotto a tabloid di provincia.

 

 

Credo che questo sia un chiaro segnale di mancanza di civiltà, di passione verso il proprio lavoro che, ricordiamolo, ha l’obiettivo di divulgare i fatti sportivi. Tutti. Seppur il calcio abbraccia molti più seguaci, malgrado sia lo sport nazional popolare per eccellenza, noi non viviamo solo di pallone. E quando il calcio oscura la morte di un personaggio come Kobe Bryant, allora siamo di fronte alla morte dello sport.

 

La funzione dei giornali, se ancora esiste, non è solo di rendere nota all’opinione pubblica una notizia. C’è un qualcosa che va oltre, di materiale, di fisico.

 

Specie quando si tratta di sport: non c’è niente di più bello che entrare in una stanza di un qualsiasi appassionato e trovarsi di fronte prime pagine, che scandiscono quella sua passione, attaccate su ogni parete. Perché a differenza di qualsiasi altro mezzo di comunicazione, la parole scritte rimangono. E mentre per i giornali esteri le prime pagine di un tristissimo lunedì 27 gennaio 2020 ricorderanno per sempre Bryant e quel che è stato, noi lo celebriamo allo stesso modo (se non meno) di una semplice vittoria nel nostro massimo campionato calcistico.

 

 

Stesso tenore la prima del secondo quotidiano sportivo nazionale, il Corriere dell’ormai indifendibile Zazzaroni, autore di un corsivo impresentabile.

 

 

Per questo che si parli di Bologna, dove in un fine primo tempo tra Fortitudo e Varese è stato improvvisato in fretta e furia uno striscione. Un semplice “Ciao Kobe”, a dimostrazione di come le parole scritte restino per sempre. Come le leggende.

 

 

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