Papelitos
16 Febbraio 2023

L'allenatorismo, mania dei nostri giorni

Un'ideologia che rappresenta un'epoca.

Lo avevano già scritto su queste colonne contrastiane firme ben più degne del sottoscritto: “gli allenatori sono i nuovi top player”. Di loro si parla, sempre e comunque; sono loro i nuovi numeri 10, i veri registi, artefici e demiurghi delle formazioni. Le squadre sono ormai per naturale estensione il Napolidispalletti, il MilandiPioli il CitydiGuardiola e via discorrendo. Fino al punto che una sfida tra due formazioni, che un tempo magari era la sfida tra due città, due visioni del mondo/tifoserie o più banalmente tra 22 giocatori – e diventata poi invece la sfida tra i rispettivi top player (i rispettivi numeri 9, 10 o così via) – si è trasformata oggi nel duello tra i due tecnici:

Guardiola vs Arteta, Spalletti vs Allegri, Nagelsmann vs Galtier, Conte vs Pioli.

È così un po’ per tutti, fino al punto che all’indomani della vittoria milanista Rivista 11 ha titolato: “Patrick Thiaw è l’ultima grande invenzione di Pioli”. Posto che magari ci fossero più riviste undici nel desolante panorama della narrazione sportiva italiana, ma grande invenzione de che? Quattro paragrafi in cui non si trova altro merito di Pioli se non quello di aver schierato il difensore tedesco (autore di una superba prestazione, ma che in stagione aveva raccolto appena 200 minuti totali) preferendolo a Gabbia (fosse stato Nesta): una scelta quasi obbligata dalla difesa a tre e dall’assenza di Tomori.

Ma allora, non sarà meglio celebrare Patrick Thiaw anziché Pioli? – il suo battesimo europeo di fuoco tra l’altro, che un giocatore non si celebra già dopo una gran prestazione. Perché Pioli? La verità è che, in un’epoca maniaca e ossessionata dal controllo come la nostra, quella dell’allenatorismo diventa un’ideologia naturale. Un’ideologia con cui cresciamo fin da ragazzi, e per cui gli allenatori siamo noi: pensiamo ai vari giochi di calcio, su tutti Football Manager. C’è chi addirittura “diventa” allenatore qui, da Villas Boas a Will Still, tecnico del Reims che non ha neanche il patentino per allenare ma “ossessionato da Football Manager, che ha acceso la mia passione per allenare”, e che oggi sta ben fugurando su una panchina vera.



Un’ideologia dilagante in un’epoca che, allo stesso tempo, ha perso arte e personalità. Quelle che un tempo portavano sul campo i calciatori: oggi gli artisti del pallone sono sempre meno, e anche i più forti, i più talentuosi (soprattutto in Europa) sono decisamente più omologati negli stili di gioco, non dispongono di quella creatività e unicità che avevano fino a qualche tempo fa i loro predecessori – ma anche per un fattore naturale: se prima ci si formava in strada, dove ognuno era diverso, ora si viene formati negli allenamenti intensivi delle scuole calcio, laddove tutti sono uguali. Tant’è che ci innamoriamo dei sudamericani o degli africani.

Per non parlare della personalità.

Il modello Nagelsmann, quello dei giocatori con gli auricolari in campo così da poterli indirizzare meglio – che è lo sviluppo della mania di controllo sacchiana/guardioliana – presuppone calciatori che abbiano sempre meno carattere, che diano totale disponibilità al tecnico di turno per essere semplici esecutori. Non a caso lo stesso Pep alle personalità ingombranti, l’Ibrahimovic di turno ma non solo (e non venitemi a dire che il Messi del Barca era una personalità ingombrante), ha sempre preferito calciatori da formare o a cui mancava l’ultimo step per diventare campioni (i vari Bernando Silva, Mahrez, De Bruyne stesso). Così come Sacchi poteva convivere, e a fatica, per uno-due anni con i Van Basten di turno prima di mandarcisi al diavolo.


I giocatori, da strada, per cui perdiamo ancora la testa (a parte quasi tutti i brasiliani).


In conclusione, abbiamo citato prima anche Nagelsmann vs Galtier. In realtà per PSG-Bayern si parla ancora principalmente, e per fortuna, di altro. Un po’ perché da un lato c’è il Bayern Monaco, una società più grande dei suoi individui, che non era ‘di qualcuno’ neanche con Guardiola proprio per il suo carattere profondamente bavarese, radicato, per la sua filosofia inimitabile del Mia san mia. E un po’ perché dall’altro lato ci sono le stelle, Messi, Neymar e, su tutti, Kylian Mbappé. Lasciatemi chiudere con un breve elogio di questo villain del pallone.

Un giocatore-azienda che gioca da sé e per sé, arrogante e supponente, e che dichiara di pretendere altri trattamenti (economici in primis) rispetto ai migliori dei suoi compagni. Il calciatore più forte del mondo.

Contro i tedeschi è partito dalla panchina ma nessuno parlava di tattiche e schemi. Si chiedevano tutti: quando entrerà Mbappé? Telecronisti e pubblico, allo stadio e a casa. E al momento del suo ingresso il Parco dei Principi è esploso in un boato, la partita è cambiata, tutti si sono esaltati; lui ha puntato, ha accelerato e ha pure segnato, due gol, entrambi annullati per offside – il secondo cancellato da quella barbarie del fuorigioco semi-automatico per una spalla avanti di Nuno Mendes. Nel frattempo pero aveva riportato il calcio nella sua dimensione, alle sue gerarchie naturali. L’artista del pallone, il più forte di tutti, di cui il rettangolo verde è palcoscenico. L’essenza del football, altro che allenatori e allenatorismi.

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Federico Brasile

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