Allegri, Spalletti, Sarri, Mazzarri: non conoscevamo la noia.
In questa stagione calcistica, già bizzarra per conto suo, si nota un vuoto. E non stiamo parlando di quello sugli spalti: ormai ci siamo abituati, purtroppo. Alla serie A, giocata sul campo o raccontata nei media, manca infatti un altro ingrediente piuttosto saporito: la toscanità. Per un incrocio di fattori, alcuni davvero inaspettati, il campionato in corso è privo dei quattro condottieri toscani che, negli ultimi anni, avevano orgogliosamente esibito vizi e virtù del proprio popolo di origine. Parliamo di Allegri, Mazzarri, Sarri e Spalletti. In rigoroso ordine alfabetico.
Chiariamo subito un punto. Qui nessuno ha intenzione di giudicare chi fra loro è bravo o meno, chi è vincente o meno, chi è perdente o meno, chi è fortunato o meno. Esistono altre sedi per stabilirlo, più qualificate o più cialtrone (dipende dai punti di vista). La questione è diversa: i quattro discendenti del Granducato, con le loro scelte o i loro comportamenti, creavano comunque spunti di discussione coloriti in un panorama tristemente orientato al grigio.
Ci manca Massimiliano Allegri, la risposta tirrenica ai bagnini romagnoli degli anni ‘60. Ci manca la sua visione della vita sempre un po’ vitellonesca, costruita sulle zingarate con Galeone, sui tornei amatoriali nei mitici “gabbioni” livornesi, sulle metafore ippiche dove si vince “di corto muso” e si mandano i giocatori stanchi “al prato”. Neppure gli anni al Milan berlusconiano o alla Juventus agnelliana erano riusciti a modificarlo geneticamente.
Anche in giacca e cravatta, Max lo immagini sempre in costume, con un gelato in mano, a sfogliare la Gazzetta sul banco frigo del Bagno 34, mentre butta un occhio alla tipa in bikini che passa lì vicino.
Negli ultimi tempi, Max aveva inoltre avviato un’interessante crociata (che riprenderà sicuramente al rientro in attività) contro “i teorici” del calcio. E grazie alla pubblicazione del suo libro si era ritagliato un ruolo di filosofo popolare, ricorrendo spesso all’utilizzo di paradossi alla portata di tutti (un esempio: “Il calcio è un gioco stupido per persone intelligenti”). Memorabili alcuni suoi duelli con Adani, veri cult su YouTube, in una rivalità dialettica (e spesso dialettale) che non vediamo l’ora di rivivere per combattere i dopopartita soporiferi di oggi.
Max è però in stand by dall’estate 2019: nel frattempo, club come Barcellona, PSG o Chelsea hanno cambiato allenatore. Eppure lui non è approdato a nessuna di queste panchine, malgrado un curriculum più significativo rispetto a quelli dei vari Koeman, Pochettino o Tuchel. Perché? Non lo sapremo mai. Quindi inutile sprecare parole. Come dice lo stesso Allegri, “le parole le porta via il vento, le biciclette i livornesi”.
Walter Mazzarri è un’altra storia. Dopo la parentesi al Torino, finita malissimo a causa di una clamorosa gaffe diplomatica (citare come esempio di dedizione un giocatore della Juve ai tifosi granata è l’harakiri perfetto), il buon Walter è sparito dai radar. Niente interviste, niente ospitate, niente apparizioni. Pochissime voci di mercato sul suo conto: si parlava di un possibile interessamento dell’OM, che però ha poi scelto l’argentino Sampaoli.
Visto il periodo trascorso a Napoli, città con la quale Marsiglia ha una specie di legame “geosociale”, e considerate le caratteristiche del personaggio, una piazza così calda poteva essere interessante come ritorno in panchina. Ma è probabile che nella scelta della dirigenza francese abbia pesato l’esperienza infelice, soprattutto sotto il profilo linguistico, di Mazzarri al Watford. In più, Walter rappresenta l’aspetto cupo di una certa toscanità. Se Allegri è la risata beffarda, possibilmente ad alta voce, Mazzarri è il mugugno, digrignato fra i denti. Se Allegri è la spiaggia in estate, Mazzarri è il mare in inverno: grigio, mosso, increspato.
Il catalogo di scuse del tecnico di San Vincenzo è ormai entrato nell’immaginario collettivo dei tifosi, forse in maniera addirittura eccessiva. Purtroppo per lui, le etichette sono etichette: una volta che te le appiccicano, nel calcio non te le togli più. Ed è innegabile che, negli ultimi tempi, erano in molti ad attendere le interviste di Mazzarri solo per ascoltare le nuove attenuanti dovute al campo, al vento, alla pioggia, al traffico, al caldo, all’arbitro, agli infortunati, al calendario, agli integratori non sufficientemente freschi.
Mazzarri, in realtà, sconta una specie di amarezza interiore che condivide con diversi colleghi: quelli per intenderci che non sono riusciti ad arrivare nei top club (Guidolin, all’epoca) o che ci sono arrivati nel momento sbagliato (lui stesso e Gasperini, per fare un paio di nomi).
Ottimi tecnici, spesso molto preparati, che hanno ottenuto e continuano ad ottenere risultati eccellenti sia in termini sportivi che economici (valorizzazione o rivalutazione dei giocatori). Ma condannati per sempre alla seconda fascia e rimpiazzati ogni volta da qualcuno apparentemente più sexy, più attraente, più simpatico, più qualcosa che a volte non si capiva neppure bene. Basta vedere cosa è successo al Torino negli ultimi mesi. A Mazzarri, questa frustrazione pesa come un macigno. E si vede.
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Maurizio Sarri, invece, non ha problemi del genere. Lui ai top club italiani o europei ci è arrivato. E ha subito vinto, al primo anno. Giusto il tempo per congedarsi o per essere congedato. Dove finirà? Vedremo. La reale curiosità, legata senza dubbio alla destinazione, è capire chi ritroveremo dopo le due ultime esperienze al Chelsea e alla Juventus: l’uomo in tuta, con tutta la sua rusticità, o il neoborghese in camicia e polo? Londra e Torino sono state tappe importanti. Nella prima ha imparato che certe persone (Roman Abramovic e Marina Granovskaia) non si possono neppure nominare. Nella seconda che certi giocatori (Cristiano Ronaldo) non si possono neppure spostare.
Un doppio esercizio di depotenziamento della proverbiale abrasività toscana, di cui Sarri era, e resta, fiero paladino. Ci manca di sicuro la sua dialettica arguta, quasi mai banale, frutto di una notevole preparazione teorica. Ci manca la curiosa contrapposizione fra l’aspetto ruvido dell’uomo e la ricerca costante di un gioco votato alla bellezza, all’eleganza e all’armonia. Perché Sarri è sostanzialmente un esteta. E con il tempo si è pure liberato da certe uscite discutibili a sfondo erotico sessuale.
Parliamo di quando si rivolgeva a Roberto Mancini dandogli del “finocchio” in un turno di Coppa Italia. O di quando spiegava ad un giornalista che “Mertens se vuole può guardarmi anche mentre faccio la doccia” (il belga lo aveva fissato con occhi di sfida dopo aver realizzato una doppietta partendo dalla panchina).
Nel suo buen retiro di Vaggio, fuori Arezzo, Sarri coltiva il silenzio e continua a percepire un lauto stipendio dalla Juventus, dopo essere stato allontanato per far spazio a Pirlo. Qualcuno ipotizza una possibile corsa fra lui e Allegri per sedersi sulla panchina della Roma, in caso di destituzione di Fonseca. Opportunità potenzialmente intrigante. Lì, nella città del potere politico, capiremo se lo spirito toscano divamperà di nuovo o se lascerà il passo al blu ministeriale.
Chi a Roma c’è già stato per ben due volte, e probabilmente non ci tornerà mai più, è Luciano Spalletti da Certaldo. Negli ultimi periodi della sua carriera, Lucianone non si è fatto mancare nulla. Si è schierato contro Totti e contro un intero popolo. Ha duellato con ogni interlocutore possibile sulla piazza romana e non: giornalisti televisivi e della carta stampata, radio, tifosi, opinionisti, attori, cantanti, politici, ultrà, VIP, semplici simpatizzanti.
Totti, nel suo libro di memorie, ci va giù duro e descrive uno Spalletti letteralmente nato per litigare. Cassano, coprotagonista del famigerato format Bobo TV con Adani, Vieri e Ventola, non perde occasione di ricordare aneddoti sul piacere di provocare Spalletti, in ritiro o in allenamento: la consapevolezza di trovarsi di fronte materiale facilmente infiammabile era per il barese una tentazione irresistibile. Perché Lucianone è così: lui è davvero la quintessenza del toscano rissoso.
Poi, terminata la guerra civile romana, il nostro eroe si è trasferito a Milano.
Poteva la nebbia di Appiano attutire la sua vocazione allo scontro, preferibilmente plateale? Ovviamente no. Spalletti ha trovato nuovo pane per i suoi denti affamati: nel caso specifico, la coppia Mauro Icardi/Wanda Nara. Anche lì sono esplosi casini infernali, che hanno portato all’allontanamento del bomber, e che il tecnico ha affrontato con il suo impareggiabile spirito attaccabrighe, con il suo gusto per la discussione in ogni circostanza, con la determinazione a ricamare per settimane su un semplice aggettivo, letto o ascoltato.
Lo ha fatto inoltre creando un nuovo linguaggio techno/pop/psichedelico/scientifico (involontario omaggio al suo conterraneo Dante Alighieri), composto da frasi tipo «al fine di addizionare la densità nella tre quarti, sarebbe auspicabile un corretto coinvolgimento emotivo dei miei calciatori nella fase di recupero sotto palla, per poi scivolare correttamente e con maggiore fluidità verso il compagno maggiormente disponibile».
L’Aldo Moro dei congressi DC o il Carmelo Bene di “Sono apparso alla Madonna” lo avrebbero adorato. Come fa a non mancare uno così? O preferiamo sentirci ripetere per la milionesima volta l’importanza di “andare a prenderli alti” e di “assicurare le giuste coperture preventive”?
La Toscana ci manca. I toscani, quei toscani, ci mancano. A rappresentare la categoria è riaffiorato di recente Leonardo Semplici sulla panchina del Cagliari. Ma non è la stessa cosa. Siamo un po’ in astinenza. Vogliamo ancora la nostra dose di gente incazzosa. Spiritosa. Permalosa. Polemica. Di sangue bollente. E pazienza se magari ci scappa la battutaccia maleducata. In fondo, “sono hose di hampo”.