Si potrebbe risassumere come una sentenza popolare la stagione 2022 della Ferrari. I tifosi quest’anno hanno sofferto, ed è sacrosanto, complice un’attesa quasi ventennale del titolo Mondiale e l’inizio lusinghiero per non dire illusorio della stagione appena conclusa; così, è naturale che la sconfitta abbia bruciato più di altre volte. La Ferrari è soprattutto questo: passione, sentimento, comunione di un destino e simbolo di un’identità condivisa. È giusto tifarla ed è giusto, da italiani, sostenere senza se e senza ma una delle poche bandiere tricolori rimaste.
Il 2022 ha mostrato però anche l’altra faccia del tifo, che ha assunto presto i tratti di un malcontento, l’ennesimo, cavalcato da una narrazione mediatica bacinocentrica di dubbio gusto e valore, sfociato infine in un vero e proprio tumulto con una sola, grande, richiesta: “giustizia per la Ferrari!” Così la massa appassionata di sostenitori e sognatori, ribattezzata fieramente dalla stessa casa di Maranello con l’hashtag #tifosi (perché fa figo più che per altro), ha decretato la fine del proprio leader. A furor di popolo questa fantomatica giustizia ha assunto la forma della testa di Binotto tagliata dalle vesti di team manager Ferrari, quale che fosse la sua colpa e quale che fosse la competenza degli spettatori per decretarne la sorte.
“Non eravamo pronti a vincere il Mondiale” ha detto lo stesso team principal dopo l’ultimo GP di Abu Dhabi, espressione di una consapevolezza per cui la squadra era all’interno di un percorso di crescita, e necessitava di una maturazione definitiva.
«Con il dispiacere che ciò comporta, ho deciso di concludere la mia collaborazione con Ferrari. Lascio un’azienda che amo, della quale faccio parte da 28 anni, con la serenità che viene dalla convinzione di aver compiuto ogni sforzo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Lascio una squadra unita e in crescita. Una squadra forte, pronta, ne sono certo, per ottenere i massimi traguardi, alla quale auguro ogni bene per il futuro. Credo sia giusto compiere questo passo, per quanto sia stata per me una decisione difficile. Ringrazio tutte le persone della Gestione Sportiva che hanno condiviso con me questo percorso, fatto di difficoltà ma anche di grandi soddisfazioni».
Un addio che non è nemmeno una cacciata da parte della dirigenza, ma si consuma con delle sofferte ma convinte dimissioni dopo 28 anni di onorevole lavoro. Un divorzio che gronda sangue. Ha servito la causa Mattia, certamente con la passione, la dedizione ma soprattutto – come detto da lui stesso – con l’amore e la fedeltà che solo l’esserci nato, cresciuto e maturato poteva dargli. Cosa che tanti dimenticano. Ma non è bastato. Rimarrà in carica e seguirà il progetto della nuova vettura (675) fino al 31 Dicembre, poi l’addio alla sua squadra, al suo mondo, alla sua famiglia.
L’interim sarà affidato al CEO Vigna, mentre non è dato sapere chi sarà la persona deputata a ricoprire il ruolo più importante di tutti nell’universo Ferrari. Si è parlato di Frederic Vasseur, oggi CEO e Team Principal della Sauber / Alfa Romeo Racing, si è parlato di un nostalgico ritorno di Ross Brawn, mentre nelle ultime ore si è fatta avanti anche l’ipotesi Paul Hembery, ex Direttore Motorsport Pirelli, figura carismatica e uomo di pista ben inserito nell’ambiente italiano.
Di certo, la mancata tempestività di questo cambio al vertice non è un buon segnale da parte della dirigenza.
Così la stessa classe giornalistica che ha fomentato le divisioni tra #predestinato Leclerc e #BinottoOut, contribuendo a quel “clima infame” di cui lo stesso direttore sportivo ha parlato, rivendica le ragioni del divorzio considerato l’unico modo di uscire dalla crisi. Binotto non è stato certamente perfetto, e nessuno qui vuole negare che abbia commesso errori importanti; eppure ha riportato la Scuderia al vertice dopo anni di crisi, e ora chiunque lo sostituirà avrà l’obiettivo minimo di vincere un titolo mondiale.
Per chi si fosse perso la nostra analisi sui problemi della Ferrari, ben più profondi del semplice Binotto
Non è una scoperta di oggi d’altronde, non nostra, che nella enorme complessità di uno sport tecnologico come la Formula 1 uno dei pilastri per vincere sia la stabilità degli uomini (e delle loro competenze) nella formazione del progetto sportivo, che culmina in ultima istanza con la vettura. Gli esempi stanno proprio nei rivali diretti delle ultime stagioni del Cavallino: Mercedes ha iniziato a vincere molti anni dopo l’ingresso nel campionato, come squadra indipendente in mano a Toto Wolff, stessa cosa per Red Bull con Chris Horner e Adrian Newey.
Entrambi i team hanno attraversato alti e bassi sportivi e tecnici, senza mai mettere in discussione così tanto la squadra, men che meno i vertici, che hanno potuto proseguire progetti di lungo periodo per tornare a vincere. Come al solito, invece, a Maranello sentiamo la mancanza di parole forti, nette, precise, visionarie da parte del Presidente, che continua a non esporsi. Così come avvertiamo la mancanza un’analisi approfondita su ciò che non è andato quest’anno, al di là della vittima sacrificale (e sacrificata) Binotto.
Purtroppo i problemi più profondi e radicati della Ferrari, infatti, rimarranno.
Da una parte il racconto mediatico eccessivamente spinto alla umoralità, al sentimentalismo e alla sovraeccitazione, che solletica di certo la veemenza del tifo ma non la profondità della passione nei confronti uno sport comunque estremo come quello dell’automobilismo; dall’altra la piramide aziendale non più all’altezza di essere sempre all’avanguardia rispetto alla concorrenza, come l’essenza Ferrari necessita. Non eravamo pronti a vincere, noi, tutti, ferraristi. Lo saremo l’anno prossimo, ora che abbiamo la testa di Binotto? Intanto la sete di sangue è stata placata.