Il più bianconero tra i nostri Presidenti della Repubblica.
Guardando alla storia “calcistica” del Quirinale e soffermandoci sugli anni d’oro del calcio italiano anni Ottanta, se dovessimo fare un’equazione potremmo dire che Sandro Pertini stava alla Nazionale come Francesco Cossiga, suo immediato successore, stava alla Juventus. L’operazione risulterebbe coerente, al di là del fatto che il primo ha legato molta della sua fama nazional-popolare alla festosa presenza al Bernabeu durante la finale mondiale del 1982 – e poi alla partita a carte sull’aereo con i campioni del mondo di ritorno in Patria – mentre il secondo era uno Juventino doc tanto da fregiarsi del titolo di socio numero uno dello “Juventus Club Parlamento”.
D’altronde Pertini già in vita era un simulacro della democrazia repubblicana nell’immaginario collettivo, per il passato attivo nella Resistenza oltre che per il modo di interpretare la carica istituzionale. Potranno anche succedersi altri buoni presidenti ma a lui resteranno comunque incollate quelle banali etichette come “il più amato” o“il Presidente della gente” (un po’ come Papa Giovanni XXIII sarà l’unico “Papa buono”, con buona pace di Francesco, suo moderno imitatore).
Pertini, quindi, era come la Nazionale: la sola squadra amata e tifata da tutti, sempre e comunque.
L’unica capace di accendere i cuori degli Italiani, anche quelli più freddi e lontani dal calcio – sebbene, magari, solo per le settimane dei Mondiali o degli Europei. Il Presidente partigiano aveva abbandonato il tifo campanilistico per un club per dedicarsi totalmente a quello di unità nazionale, fornito dalla sola maglia azzurra. Cossiga invece no. Non era di tutti, non era come tutti e non era nemmeno per tutti. Anzi, don Cecio da Chiaramonti, come amava farsi chiamare nella cerchia ristretta dei fedelissimi, era – comprensibile – per pochi eletti.
La cosa incredibile è che non c’è alcuna contraddizione nell’avere trovato in lui questo tipo di Presidente. Basti pensare che nacque nel 1928 a Sassari da una famiglia repubblicana e di antica discendenza massonica – che lui non seguitò – ed il padre preferì “cederlo” ai preti piuttosto che ai fascisti; e poi che, da sardo, dispose che la banda militare del Quirinale suonasse l’inno nazionale del Regno di Sardegna sabaudo “Cunservet Deus su Re” all’atto delle sue dimissioni da Capo dello Stato della Repubblica italiana nel 1992.
«Ma io non sono matto. Io faccio il matto. È diverso… Io sono il finto matto che dice le cose come stanno».
Francesco Cossiga
Capace di messaggi criptici eppure come nessun altro diretto e sferzante. Conscio di una superiorità intellettuale e di un’esperienza nelle stanze del potere che lo ponevano, spesso, al di sopra dei suoi interlocutori. Uomo dalle grandi fedi (antifascista e ancor più filo-atlantista, cattolica ed ovviamente democristiana), era animato da un tifo calcistico che nel suo caso si sovrapponeva totalmente all’uomo: Cossiga era Juventino per indole prima che per credo.
Già, la Juventus. La fidanzata d’Italia per il numero di tifosi che la “eleggono” in tutta la penisola, e proprio per questo anche la più odiata; da sempre fedele alla sua tradizione e, ciononostante, timoniera del cambiamento nel calcio italiano; detentrice di innumerevoli record eppure mai tanto vanesia da rimirarsi nella vittoria ottenuta, anzi costantemente impegnata a costruire quella futura. La Vecchia Signora può prendersi brevi pause dal successo, certo, ma quando torna è più forte di prima. Esattamente questo è stato Francesco Cossiga per la politica italiana, quindi per la Presidenza della Repubblica.
L’elezione a Capo dello Stato nel 1985 avvenne già al primo scrutinio, con una larghissima maggioranza, ma egli non fu certo un politico amato da tutti: si ricordano le scritte sui muri durante gli anni bui del terrorismo col suo cognome che si trasformava in “Koϟϟiga”, e l’avversione dei partiti della Prima Repubblica nei confronti del decisionismo che caratterizzò gli ultimi due anni del suo mandato presidenziale.
L’essere stato uno dei maggiori esponenti della Democrazia Cristiana e l’investitura a massima carica dello Stato non lo resero poi mai di tutti (il Foglio ad esempio, tempo fa, è arrivato a definirlo ossimoricamente “un divisivo al Quirinale”). Dopo cinque anni di tranquillità, si trasformò nel Presidente della Repubblica-Picconatore: dall’alto del Colle, cercò di scalfire il sistema partitico che non lo ascoltò meritandosi il suo silenzio nel discorso di fine anno del 1991 e poi le sue dimissioni anticipate (da lì a poco gli avvertimenti politici di Cossiga sarebbero stati sostituiti dagli avvisi di garanzia dei magistrati).
Macinatore di record di gioventù – maturità in anticipo, giovanissimo laureato in Giurisprudenza, diventò docente universitario ed a soli 57 anni scalò il Colle – fu poi decano della politica e anche da senatore a vita non mancò di farsi vedere in Parlamento in precarie condizioni di salute, non esitando a far sentire la sua voce sorniona ed ironica, pure tra i fischi. A volte si ritirò dai palazzi del potere (come quando si dimise da Ministro dell’Interno al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro) ma quando tornava lo faceva per ascendere a cariche sempre più alte.
Il suo compagno di banco Manlio Brigaglia nel 2010 ha raccontato a La Nuova Sardegna la genealogia della juventinità cossighiana (scopriamo che come sempre è il caso a indirizzare la fede calcistica). Si dice avesse avuto l’illuminazione bianconera da bambino: «Quell’anno Francesco prese gli orecchioni. Per alleggerirgli la lunga convalescenza, Paolo Mancaleoni gli regalò un album con cinque intere annate del “Calcio illustrato” e rilegate, una rivista in offset, tutta fotografie e, in più la mitica “Partita disegnata” di Silva. Era il 1938, la Juve navigava vicino alla retrocessione: ma le 5 annate corrispondevano alla prima metà degli anni Trenta, in cui la Juventus di “Farfallino Borel” aveva vinto 5 scudetti di fila.
Così, quasi per contagio siamo diventati tifosi bianconeri».
Cossiga (il quale condivideva la fede juventina con il cugino di secondo grado Enrico Berlinguer) che tra l’altro, in virtù dei poteri di nomina concessigli quale Presidente della Repubblica, nominò l’Avvocato Gianni Agnelli senatore a vita.
Il Cossiga calcistico ebbe anche un animo profondamente identitario, magari frutto del suo essere figlio di quella che molti sardisti considerano una Nazione annessa all’Italia (in “Italiani sono sempre gli altri”, scrisse che si sentiva «italiano per volontà come sono tutti i sardi»). Nella prefazione di Roberto Beccantini al libro “Cambiare il mondo con un pallone” di Lorenzo Zacchetti, il Bek racconta che Cossiga si entusiasmò di fronte alla scelta, netta e clamorosa, dell’Athletic Bilbao di reclutare esclusivamente giocatori di sangue o scuola basca. E Fulvio Paglialunga ci fa sapere che la simpatia calcistica di Cossiga all’estero si rivolgeva a squadre dall’alto spirito identitario (se non proprio autonomista) come il Barcellona in Spagna, il Bayern in Germania ed ovviamente il Celtic in Scozia.
Lo stesso Paglialunga, sul Foglio, ci ricorda che questo «terzino destro in gioventù e battitore libero una volta arrivato al Colle» non poteva mancare di essere sopra le righe anche parlando di pallone, a partire dal provocatorio disegno di legge presentato che intendeva nazionalizzare il calcio impegnando il Tesoro a pagare i superstipendi dei calciatori. In particolare però, da colto giurista quale era, fu la giustizia sportiva il principale obiettivo delle sue picconate pallonare. E forse, proprio in virtù della sua juventinità, non poté tacere il disappunto di fronte alla vicenda Calciopoli. A modo suo, naturalmente.
Dalle interpellanze parlamentari al Ministro Giovanna Melandri sul Commissario della FIGC Guido Rossi alla lettera aperta con parole al vetriolo contro i giudici sportivi, scritta a Franco Carraro, Diego Della Valle e Claudio Lotito: «non dovete preoccuparvi: la giustizia sportiva è una buffonata (…)
io presenterò un disegno di legge in Senato perché essa venga statalizzata attribuendone la competenza a sezioni speciali dei giudici amministrativi».
Frasi ancora più dure su Calciopoli furono quelle pronunciate quando l’Italia, impegnata nella cavalcata verso il quarto titolo mondiale, fu raggiunta dalla notizia del tentativo di suicidio di Gianluca Pessotto, allora nella dirigenza della Juventus. Cossiga paragonò Calciopoli a Tangentoli definendola l’inchiesta “piedi puliti” e sentenziò che non si sarebbe avuta grazie a questa «nessuna moralizzazione: o se la danno i club o non sarà certamente Borrelli a darla loro». L’uomo che aveva definito l’Italia un Paese incompiuto riteneva che anche Calciopoli non avrebbe risolto tutti i mali del calcio, anzi.
Grazie alle parole di un Cossiga veemente per i fatti del 2006, torniamo all’equazione iniziale che metteva a confronto lui e Pertini. Quello che mancò al palmares calcistico di Francesco Cossiga rispetto al predecessore fu sicuramente la vittoria del Mondiale. Sarebbe stata ancora più importante giacché si trattava di quello giocato dalla Nazionale in casa nel 1990 durante il suo settennato (vanto che non avrebbe condiviso con nessun altro Presidente della Repubblica, poiché gli unici Mondiali italiani precedenti erano stati disputati sotto lo stemma dei Savoia e del Fascio).
Avesse vinto quella manifestazione, la Nazionale poi sarebbe passata in rassegna davanti al più juventino tra i suoiPresidenti della Repubblica, consegnandogli una Coppa del Mondo appena prima che egli iniziasse a brandire il piccone. Ed anche in questo sta la differenza rispetto a Pertini: lui i Tedeschi “li battè” in finale, Cossiga invece fu costretto a premiarli col trofeo più ambito.