Notte amara, quella del 24 marzo 2022: fantasmi coreani e svedesi si materializzano nel piede destro di Trajkovski, gelando il caldo e appassionato tifo palermitano e facendo sprofondare in un baratro di disperazione una intera popolazione calciofila. Sono attimi in cui si sperimenta la sospensione del tempo: l’incredulità domina le menti degli aficionados della Nazionale, per poi lasciare posto alla mestizia, mentre Adani e i suoi adepti si travestono da Indiana Jones dei giochisti alla ricerca della Credibilità perduta.
Le chat Whatsapp e Telegram sono roventi, ma magmatica è anche la temperatura negli studi televisivi e nelle redazioni calcistiche: è già inevitabilmente partita la caccia al colpevole, c’è voglia di giustizia sommaria, si invoca Guillotin e l’invenzione che ne perpetua il nome, per il Bene superiore del calcio italiano, naturalmente, non per un regolamento di conti dal sapor di duello rusticano a colpi di microfoni, penne e calamai. A quanto pare il Rinascimento Italiano dovuto alle geniali intuizioni del Mancio è già non solo terminato, ma siamo addirittura precipitati a ritroso nel tempo, come se una DeLorean impazzita ci avesse fatto ripiombare nei lustri più bui del Medio Evo. Eppure, in questo inutile proferir di ciarle al vento, c’è qualcosa che mi suona risaputo, e molte sentenze hanno il sapore del già detto.
“Historia magistra vitae“, proferì il saggio Cicerone in una delle sue orazioni. Frase che vale in ogni ambito della vita, e a maggior ragione anche nel calcio, che della nostra esistenza terrena è metafora. A volte basta gettare un occhio nel passato per scoprire che nel mondo pedatorio trova fissa dimora ed eterna applicazione il principio di Lavoisier di conservazione della massa:
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Gli esempi sono molti: il più famoso è forse quello del falso nueve, invenzione che la vulgata comune fa risalire a Josep Guardiola, il quale nel celeberrimo Clasico del 2 maggio 2009, terminato con un clamoroso sacco del Bernabeu con punteggio tennistico, sposterà Leo Messi per la prima volta dalla fascia destra al centro. Paolo Condò, nel suo splendido “Duellanti”, opera dedicata allo scontro atomico fra le personalità debordanti di Mourinho e dello stesso Pep durante l’aprile dei Cuatro Clasicos in 18 giorni (correva l’anno 2011), traccia un ritratto dell’allenatore catalano che sconfina nell’agiografia.
Trasuda una ammirazione quasi fanatica per un uomo che consacra gran parte della sua vita al calcio con devozione monastica, concedendo poco o nulla agli affetti, e consumandosi gli occhi nella visione ossessiva di video e relazioni sugli avversari. “Un teorico della rivoluzione permanente”, calcio che si rifà ai dettami leninisti o trozkisti in base al quale bisogna sempre migliorare la manovra, ché una pur genialissima mossa nell’istante successivo al quale è stata compiuta è già obsoleta, e ha permesso all’avversario capace di studiare una valida contromossa. E poi così facendo, si impedisce ai propri atleti di crogiolarsi nella quiete estatica di chi ha vinto, preludio all’inevitabile declino che conduce alla sconfitta (non vi ricorda forse una certa Nazionale?).
I Duellanti è un libro di Paolo Condò, edito da Baldini & Castoldi nel 2016.
Insomma, fra un complimento e una lode a Guardiola, Condò dimentica forse la cosa più importante: tutti i sacrifici connessi a questa genialissima intuizione, tutte le ore spese per l’ideazione di questa brillante tattica sarebbero stati risparmiati dalla semplice conoscenza della Storia del calcio. Il trucco del falso nueve fu infatti inventato da Gustav Sebes, ingegnoso selezionatore della Aranycsapat, la Grande Ungheria di Puskas, Czibor e Kocsis, che nel 1953 distrusse gli orgogliosi Maestri Inglesi facendo loro confondere per una sera Wembley con Wimbledon, annichilendoli con un formidabile 6-3 nelle terra d’Albione in cui si erse a protagonista Nandor Hidegkuti, che ingannò e portò fuori zona il suo marcatore disimpegnandosi da falso centravanti, come rimarcò Brera nella sua famosa “Storia Critica del calcio Italiano” e ne “La leggenda dei Mondiali”.
“Avevo fatto presente (a Winterbottom, CT inglese, nda) che il centravanti magiaro, Hidegkuti, soleva arretrare molto, e che se il suo stopper l’avesse seguito sarebbe stato un disastro: senza scomporsi, il favoloso ‘Sedere d’Inverno’ disse «Johnston (lo stopper) seguirà Hidegkuti finchè lo riterrà opportuno, poi farà back pedalling» (…) Al fischio d’avvio, lo stopper inglese Johnston avanzò a cercare Hidegkuti e poi fece trafelato back pedalling mentre avanzava Hidegkuti dando l’impressione di voler lanciare da un istante all’altro verso una delle due punte: invece, all’improvviso, batté da 30 metri verso il sette destro della porta inglese e l’infilò. Erano passati 20 secondi”.
Gianni Brera, La leggenda dei Mondiali
Ci sarebbe poi molto da dire anche sull’invenzione di Pirlo regista davanti alla difesa: Mazzone in una intervista concessa a Furio Zara e pubblicata su Repubblica un paio di anni fa si prende il merito di questa intuizione, giudicando il buon Andrea “uno dei tanti” quando veniva impiegato dietro le punte. nonostante le non comuni doti tecniche; per la sua capacità di vedere il gioco, di intuire come si sarebbe dipanata la trama, il suo posto era davanti alla difesa, dove si sarebbe rivelato come un interprete del ruolo capace disegnare un’epoca. Non sono pochi i commentatori che assegnano invece a Carlo Ancelotti il merito della scoperta.
Sia quel che sia, due vecchie volpi dell’italica pedata come i due Carletti in questione non potevano certo ignorare la parabola di Matteoli, genietto di centrocampo tutto riccioli e fosforo, che da trequartista,a metà anni 80, era giunto a vedersi aprire le porte dell’Inter e della Nazionale: ma il dualismo con Scifo, assieme a Borghi una delle grandi illusioni e delusioni del decennio della “Milano da bere”, ne aveva inficiato il rendimento, sfiduciando il 10 sardo e facendolo mestamente retrocedere in panchina in panchina. La svolta arrivò per caso, il 16 ottobre 1988, alla seconda di campionato: con il classico gol dell’ex, la meteora Bernazzani, il Pisa chiude il primo tempo in vantaggio sull’Inter, sognando di sbancare il Meazza. Il popolo interista rumoreggia, presago di una disfatta che amplificherebbe un inizio di stagione fortemente deficitario. E anche il presidente Pellegrini in tribuna frigge: che si prospetti l’ennesima stagione deludente?
Negli spogliatoi, il Trap sta riflettendo: si gioca molto anche lui, finito sulla graticola dopo la rocambolesca eliminazione dalla Coppa Italia per colpa di un 4-3 con la Fiorentina. Ha incassato la fiducia dei senatori della squadra, ma non ha ancora scacciato l’ombra sinistra di Fascetti che volteggia sulla sua panchina. E per farlo, dovrà far fuori proprio uno degli elementi di spicco di quella vecchia guardia che lo aveva confortato nell’ora più buia. Beppe Baresi opera infatti egregiamente da frangiflutti sulla mediana, ma non è in grado di fornire alla manovra il fosforo necessario all’ideazione, e successiva attuazione, degli schemi necessari a perforare la maginot pisana. E ora il tecnico di Cusano Milanino si trova in bilico fra riconoscenza e pragmatismo.
Ma come scrisse Soriano, “il calcio è dubbio costante e decisione rapida” . E il Trap, allo scadere del riposo, pronuncia la frase che farà svoltare partita e stagione: «Gianfranco, preparati. Entri tu.» La cosa meravigliosa del calcio è che basta il tempo di un soffio per far svoltare completamente anche le situazioni più disperate e drammatiche: e Matteoli si mette subito in cabina di regia, sciorinando il suo gioco magari poco appariscente ma essenziale , come quei silenzi che riempiono la scena, e diventando il direttore d’orchestra di quella squadra sinfonica, da wagneriana Cavalcata delle Valchirie visto il nerbo tedesco di Matthaus e Brehme che la irrobustiva, che divenne nota come “Inter dei Record”.
E in tempi in cui ci si scaglia spesso e volentieri contro il calcio spezzatino, le troppe partite, le condizioni proibitive in cui si gioca a futbol, a detrimento dello spettacolo, risuonano profetiche le lamentele espresse da un Diego Armando Maradona a metà fra il Che Guevara e il Don Chisciotte: al Mundial messicano dell’86, come racconta Galeano in quel capolavoro che èSplendori e Miserie del gioco del calcio
“Maradona e Valdano protestarono perché le partite principali si giocavano a mezzogiorno, sotto un sole che friggeva tutto quello che toccava. Il mezzogiorno in Messico, l’imbrunire in Europa: era l’orario che conveniva alla televisione europea (…) La vendita dello spettacolo contava più della qualità del gioco? I calciatori devono tirare calci , non scalpitare. E Havelange mise la parola fine a questa imbarazzante questione: pensino a giocare e stiano zitti, sentenziò“.
Storia che si ripetè 8 anni dopo, a USA 94, quando Argentina – Grecia fu fissata il 21 giugno al Foxboro Stadium di Boston, alle 12.30, con temperatura sui 40° e umidità micidiale, e un Maradona che è caustico e implacabile contro la Fifa :«Havelange e Blatter sono degli egoisti. Hanno pensato solo ai quattrini della Tv, che ha imposto orari assurdi per trasmettere le partite all’ora più favorevole per vederle in Europa.»
Penso a tutto questo mentre nei talk show le gole si seccano a suon di grida e lamenti, e i depositi di inchiostro e toner delle stamperie si preparano a un saccheggio da lanzichenecco per dar sfogo al’unico vero sport nazionale: la polemica. Sarebbe da ingenui sperare di poter ascoltare una disamina serena e pacata a caldo, quando il fuoco della delusione è un incendio che devasta ogni minima speranza di un futuro roseo. Non che a freddo le cose migliorino.
Andando a pescare un barlume di raziocinio si potrebbe ragionare sul fatto che innanzitutto la ricostruzione è più difficile delle costruzione: e a ciò sono chiamati a contribuire i dirigenti federali, quelli delle società, i tecnici, i giocatori, gli sportivi e i media, perché l’interesse di tutti coincide col fine ultimo di riavere una Nazionale degna. Se è certo, perché il campo questo ha detto, che sono stati fatti molti errori , a tutti i livelli, sull’impostazione e la gestione della squadra, Mancini non può né deve rappresentare il capro espiatorio della situazione. Bisognerebbe predisporre un programma concreto, investendo il Centro Tecnico di quelle funzioni che sino a oggi, per quanto riguarda la Nazionale, sono rimaste inespresse. Sul fattore della tecnica individuale, purtroppo, il nostro calcio non si è più soffermato da molto tempo.
Walter Sabatini non ha certo torto quando al grido di dolore manciniano sul fatto che i nostri prodotti nostrani languono in panchina risponde col suo stile diretto che ciò avviene perché evidentemente il loro livello non è all’altezza degli stranieri.Dai vivai delle società escono talvolta prodotti potenzialmente forti ma non ancora ben rifiniti, e se aggiungiamo l’idiosincrasia delle squadre di vertice a lanciare i giovani, capiamo bene che tutti le inchieste sullo stato dei nostri vivai, che periodicamente campeggiano sulle prime pagine dei quotidiani (di solito quando c’è la sosta per le Nazionali, ça va sans dire), potrebbero recare in calce la firma “Cassandra“.
Il miglioramento di un giovane, da un profilo strettamente tecnico, non può venire in campionato, dove egli si fa un prezioso bagaglio di esperienza agonistica: ma è sul campo di allenamento che modificherà una impostazione errata, che eliminerà un difetto saliente. Non si può essere d’accordo con chi lamenta l’impossibilità di allestire una squadra nazionale decorosa e vincente. Le possibilità esistono, ma si deve ovviamente seguire una linea razionale, tracciare una impostazione programmatica, saper scegliere con avvedutezza il materiale adeguato e poi lavorarlo, plasmandolo con estrema cura.
Tutta farina del mio sacco? Proprio no. I corsivi degli ultimi paragrafi sono parole scritte da Angelo Rovelli, in un articolo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport del 18 gennaio 1958, in seguito alla prima storica e clamorosa eliminazione della Nazionale da un Mondiale, dopo l’inopinata sconfitta contro l’Irlanda del Nord di una Nazionale infarcita di oriundi (ecco, ancora una volta, la Storia che si ripete). Èstato sufficiente cambiare i nomi dei protagonisti (Mancini per Foni) e aggiungere un paio di riflessioni aggiornate ai nostri giorni, ed ecco l’ennesima dimostrazione dell’assioma reso celebre dal filosofo britannico Edmund Burke, secondo il quale chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Sapremo stavolta far tesoro degli insegnamenti del passato, o continueremo pervicacemente a ripetere gli stessi errori?