Calcio
01 Luglio 2024

La via per diventare uomini

Analisi del fallimento dell'Italia di Spalletti.

L’altra sera, mentre ero indaffarato ad accendere il fuoco per una lenitiva grigliata accompagnata da qualche birra, dall’iPad velato dalla cenere e minacciato da una pericolante Ceres ghiacciata, è comparso Fabio Capello. Con la consueta severa friulanità, don Fabio ne aveva per tutti. Da Fagioli “pesce in un barile” a Spalletti che ha “sopravvalutato la rosa”. A un certo punto qualcuno fa notare che la Nazionale, una volta andata sotto la curva, è stata pesantemente fischiata.

Capello bofonchia qualcosa ricordando un analogo trattamento subito al termine della pessima spedizione del mondiale tedesco del 1974, da lui vissuta in campo. Le Ceres fanno il resto. Mi portano a chiedermi cosa ne pensasse, Capello, del carrozzone che seguì la Nazionale di Valcareggi cinquant’anni esatti fa. Possiamo farci un’idea sfogliando Azzurro Tenebra, il resoconto che Giovanni Arpino, inviato per conto de La Stampa a seguire il mondiale, fece sugli azzurri.

“Arp” descrive con impareggiabile e ironica maestria la corte mediatico-sportiva che affligge il ritiro tedesco. Due le fazioni. Le Belle Gioie vogliono la concordia e tifano un’Italia vincente. Le Jene, invece, trovano linfa vitale a ogni cattivo risultato, dualismo tecnico, incertezza del CT.

Lo scrittore istriano, alla riedizione di un disastro, cinquanta anni esatti e nelle stesse lande, assisterebbe divertito. Ma per nulla sorpreso.



La storia dice che nulla fomenta il partito delle Jene come le incertezze del commissario tecnico. L’arrivo di Spalletti fu accolto come ventata salutare dopo la fine di Mancini, iniziata nel momento in cui il tiro di Trajkovski si adagiava in rete, assicurandoci la seconda mancata qualificazione di fila ai mondiali. Spalletti si è seduto sulla panchina della Nazionale al suo apice, fresco demiurgo di uno degli scudetti più belli degli ultimi trent’anni.

Dalle prime dichiarazioni ha sottolineato la sacralità dell’appartenere all’élite del calcio italiano, “in un mondo dove le poste italiane ci consegnano tutto a casa sembra facile arrivare a ogni cosa, ma per la maglia della Nazionale non è così”. All’inizio il messaggio, assieme a qualche rudimentale intesa tattica, sembrava passato. Il girone è stato passato con relativa agilità.

Sì, c’erano vistosi cali di tensione (il secondo tempo contro l’Ucraina a San Siro); e sì, si era capito che esistono nazionali contro le quali l’Italia ha molto poco da dire (Inghilterra a Wembley, unica sconfitta prima della fase diretta). Ma c’era fiducia, e non era riposta a caso. Soprattutto, sembrava che la tenuta mentale di CT e squadra andasse migliorando. Che si stessero conoscendo, e che tutti avessero compreso il valore di quella maglia. La stampa approccia l’Europeo con toni benevoli. La propaganda fa il resto, tra penosi pellegrinaggi votivi dei nostri ex numeri 10 e agghiaccianti comparsate a tradimento di cantanti nello spogliatoio.



Ma il partito delle Jene sentiva che non sarebbe morto di fame. Il naufragio contro la Spagna è stato accolto come il profumo di una carcassa nel deserto. L’imbarazzante prestazione generale, esacerbata in alcuni singoli (Di Lorenzo su tutti) ha fatto franare ogni tentativo di armonia. Le critiche sono state pesanti. Forse, considerato lo stato di forma delle Furie Rosse abbinato alla modestia tecnica nostrana, un filo eccessive. Tutto sommato bastava un punto contro la Croazia.

E invece le Jene più tattiche discettano sul rifiuto del calcio “relazionale” (qualsiasi cosa questo straziante neologismo calcistico voglia dire); quelle più tecniche rispolveravano la mancanza di qualità degli azzurri; gli eredi di Jung, aiutati dalla grottesca “Spalletti cam”, la buttano sul nevroticismo del tecnico dopo aver analizzato ogni mimica e ogni urlo. Ci sono ancora due partite, ma quando esce la formazione pre Croazia è chiaro a tutti come andrà a finire. Il rinnegamento totale del credo tattico, deciso in armonia con il gruppo, non è di per sé un male.

A patto di non viverla come un commissariamento, però. Nel dopo gara Spalletti, similmente a un’antilope ferita che si trascina come (non) può, è ufficialmente pasto per le Jene.

La dialettica si fa confusa e aggressiva, accusa l’esistenza di spie senza essere sollecitato in modo diretto sul punto. Non sa spiegare quello che fa, non sa spiegare quel che vorrebbe far fare alla squadra. Per la Svizzera rispolvera il 4-3-3, ed è notte fonda. Si aspettava personalità e scioltezza, ottiene spaesamento e gambe ingessate. Il sentimento per la maglia azzurra? Non ha dimora nella savana.

È questo quel che fa più male. E non è un aspetto di poco conto. Pochissime squadre, forse nessuna, hanno giocato peggio dell’Italia in questo europeo. Molte big hanno faticato, ma la gagliarda prestazione della Georgia contro la stessa Spagna che aveva disintegrato l’ambiente azzurro deve far notare come non sia tanto una questione di giocatori, quanto di uomini. Il disorientamento di Spalletti è palese, ma il modo in cui la squadra lo introietta è scoraggiante. Il gruppo è tutto sommato giovane, con i suoi 26,6 anni di età media è la quarta compagine meno anziana dell’europeo.



In questo senso l’esperienza, per quanto terrificante e mal gestita, può essere un’esperienza formativa. A patto di saperla incanalare nel modo giusto però, e la base non è incoraggiante. Proprio in un ritiro azzurro si consumò il dramma di Tonali e Fagioli. Il contrasto tra l’ambiente di Coverciano, con tutta la retorica valoriale che da sempre si porta dietro, e la disorientante debolezza dei due centrocampisti era avvilente. Ma era un segnale, quello sulla labilissima tenuta mentale di un gruppo giovane, ma in tre anni già scosso da un trionfo e un disastro. L’impressione è che Spalletti abbia sopravvalutato l’aspetto mentale della rosa prima ancora che quello tecnico.

Sui singoli, tolto un Donnarumma confermatosi superlativo quando veste la maglia azzurra e un sorprendente Calafiori (una piccola vittoria per Spalletti, in un mare di errori), la domanda viene spontanea: è davvero il nostro massimo?

Non si è parlato molto di chi non c’era. Probabilmente per non addossarsi alibi o aprire a domande inerenti le convocazioni, Spalletti non ha mai fatto notare che Acerbi, Scalvini, Udogie, Tonali, Zaniolo non fossero disponibili, e che Fagioli stesso avesse perso un anno. Perdite importanti, specie in prospettiva. In un’ottica di doveroso svecchiamento sarebbe stato il primo torneo in maglia azzurra per gli ultimi tre. E la mancanza di esperienza, questa Italia, la soffre più di tutte le altre nazionali di pari rango.

La storia è nota. Dal 2010 ad oggi, l’Italia non ha mai superato la fase a gironi in due mondiali, non qualificandosi nemmeno ai successivi due. Dolori parzialmente leniti da europei insoliti, geniali, scoppiettanti, con una finale e un meraviglioso titolo alzato al cielo di Londra soltanto tre anni fa. Questa uscita certifica il declino e avvalora l’eccezionalità dell’impresa di Wembley. Si parla fino alla nausea dei talenti che non abbiamo più, rimpiangendo l’età dell’oro della generazione X.


DOVE SONO I CALCIATORI ITALIANI?


I nati tra la fine dei ’60 e la fine dei ’70 si formarono in un calcio estremamente diverso. Nella Serie A ’94-95 gli stranieri erano il 17,2%. Dieci anni dopo, stagione 04-05, salgono al 28,9%. In quella stagione, ancora, solo le milanesi avevano più stranieri che italiani. Nel 2012, due anni dopo il disastro sudafricano, il primo sorpasso, al 50,1%. Oggi sono oltre il 60%. Nel frattempo, l’Italia non ha più giocato un mondiale.

Il centrocampo dell’arrembante Svizzera schierava Aebischer, Freuler e Ndoye. In questa stagione hanno giocato oltre 2000 minuti a testa nel Bologna. Il loro collega di reparto Giovanni Fabbian, 21 anni, ha solo 1053’, impreziositi da 5 gol e 2 assist. Il Milan, secondo in campionato, non contribuisce alla Nazionale con nessun giocatore. Atalanta e Bologna, quarta e quinta, ne portano uno a testa. La Spagna che delizia l’Europa sta schierando Pedri, un 2002 che ha ha quasi 10.000 minuti di presenza nella Liga e 2000’ in Europa, tutti con il Barcellona. Qualcosa come 143 partite totali. Cesare Casadei, capocannoniere del mondiale under 20, nato 3 mesi dopo, racconta di 0 minuti da professionista in Italia, 71’ in Premier, 1987’ in Championship. Non sono nemmeno 23 partite da professionista.

Wirtz e Baldanzi hanno la stessa età. Ma il primo ha 8000’ di Bundesliga, il secondo 3000. Yamal? Quasi 32 partite. Pafundi, un anno più giovane, scaricato al Losanna dalla peggior Udinese degli ultimi 30 anni per far posto al carneade straniero di turno, non arriva a 13 partite, giocate in Svizzera. Della Nazionale under 20 che un anno fa andava in finale al mondiale, solo Baldanzi e Prati giocano in Serie A. La stragrande maggioranza di loro langue in B ma qualcuno, come Pisilli, a settembre compirà 20 anni con ben undici minuti tra i professionisti.

È vero che competizioni del genere lasciano il tempo che trovano (solo il 15% dei partecipanti a una finale mondiale under 20 arriva a giocare in Champions), ma i titoli giovanili dovrebbero essere incoraggiati, segnare la vitalità di un movimento. Il calcio italiano sta conducendo da decenni una campagna di eutanasia giovanile. Si dice che la percentuale di stranieri è pari se non maggiore in Francia e Inghilterra, e le loro nazionali non ne soffrono. Buon per loro, noi invece ne soffriamo eccome.

È ormai sotto gli occhi di tutti che gli interessi dei club contrastano quelli della nazionale. L’interesse economico sul traffico di cartellini stranieri da rivalutare a scapito degli italiani fa sostenere ai dirigenti della Serie A la retorica litania “se ci sono italiani forti giocherebbero”. Ma il livello di un giocatore lo si capisce solo facendolo giocare, e a troppi italiani, pur ben figurando nelle competizioni giovanili con la nazionale, non viene concesso.



Sia chiaro, i club fanno i loro interessi, e lo fanno in modo spesso opaco, a volte persino truffaldino, ma sempre con una cornice di base perfettamente legale. Le normative comunitarie sul libero trasferimento dei lavori parlano chiaro. Lecito che il Lecce vinca lo scudetto primavera con 11 stranieri. È lecito che un dirigente bravissimo come Sartori infarcisca le sue squadre di stranieri, e che venga pure applaudito. Lui fa gli interessi di Atalanta e Bologna, mica della Nazionale. Lecita la prassi interista di cedere i suoi migliori prospetti giovanili per rimpinguare la borsa per gli ingaggi di ultratrentenni. Parimenti ai Pozzo non turba minimamente un’Udinese formata al sbalorditivo 90% da stranieri ben peggio che mediocri, basta garantirsi qualche plusvalenza e l’ennesima permanenza in A.

La storia è piena di cose legali, eppure ingiuste. La libera circolazione dei lavoratori è un pilastro della sempre più incerta Unione Europea. Le sue finalità sono lodevoli. Ma viene da ridere vedere come viene sfruttato da una categoria estremamente privilegiata ed estremamente minoritaria come quella dei calciatori d’élite e degli addetti ai lavori.

C’era un tempo in cui ci sentivamo liberi di intervenire. Dopo la disfatta al mondiale 1966 i trasferimenti degli stranieri vennero bloccati sino al 1980. Nel ’68 l’Italia vinse l’europeo, due anni dopo arrivò in finale mondiale. Nel 1982, lo vinse. Finché la finestra di italiani selezionabili era quasi sterminata, il nostro calcio, come la nostra Nazionale, era migliore. Quattro mondiali, due europei e i nostri allenatori chiamati in ogni parte del mondo (5 allenatori italiani a Euro 2024), dovrebbero bastare per riconoscerci un discreto talento nell’approcciarci al calcio. Chi si impone calcisticamente in Italia, sia italiano o no (ci ringrazia, da ultimo, il centrocampo svizzero), sale di livello.

Certo, il mondo non è più quello del 1966. Ma nemmeno quello del 2000. I popoli europei reclamano maggiore autonomia su ogni cosa: concedeteci la volontà di ricalibrare gli equilibri del nostro calcio. La Nazionale è un formidabile vettore propagandistico per una Nazione malmessa come l’Italia degli ultimi 15 anni. Senza pesanti interventi normativi, senza nuove regole che impongano un certo minutaggio ai giocatori italiani e contestuali limiti al tesseramento di stranieri, il declino continuerà.



Gravina ha parlato di “norme del mondo del calcio in contrasto con leggi dello stato e dell’economia internazionale”. Indignarsi per le sue mancate dimissioni non cambierà le cose: sono questioni che vanno ben più su di un presidente federale, per certi versi più su anche di un presidente del consiglio. Sfruttare il calcio per mettere in discussione un dogma comunitario può sembrare infantile, eppure sono questioni non rinviabili. Il calcio italiano non cambierà marcia senza imposizione.

Nel mentre, dovremo trovare le forze necessarie a qualificarsi al mondiale. Perderlo per la terza volta di fila sarebbe un unicum per una Nazionale del nostro livello. Sarebbe il semi definitivo scadimento a una dimensione internazionale di seconda fascia. Non si parte con i migliori presagi. La speranza è che Spalletti abbia fatto tesoro di questo lugubre europeo, ma soprattutto che la squadra abbia interiorizzato come non comportarsi. Un allenatore, per quanto instabile, non può essere la scusa per ogni propria mancanza. Non può essere una scusante per chi non ha dato l’anima in campo, non può esserlo per chi ha letteralmente buttato via una stagione alle slot, per, citando un filosofo contemporaneo, ballarsi la fresca.

Nel calcio, come nella vita, le guide sono importanti. Ma crescere è un affare con se stessi.

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