Io sono il target ideale dei discorsi di Lele Adani: mio padre è argentino, le mie cugine vivono a Rosario, tutta la mia famiglia tifa River Plate. Per di più – in aperto contrasto con molti Contrastiani – ammiro l’operazione culturale della Bobo TV, leggo volentieri i racconti di Carlo Pizzigoni, non disdegno l’enfasi misticheggiante attorno al calcio, al quale non mi vergogno di aggiungere saltuariamente il complemento “con la F”. Insomma, all’inizio del Mondiale,non c’era persona meglio disposta di me a seguire il caudillo di San Martino in Rio nelle sue gesta a supporto dell’Albiceleste. “¡Dale, Lele querido!” sarebbe stata la mia entusiastica risposta a una sua anche vaga esortazione a liberare le Malvinas dal dominio inglese.
Eppure, dopo la roca telecronaca al goal di Messi contro il Messico, ho disertato le file degli apologeti di Adani. La caterva di cringe a commento della rete del mio giocatore preferito non solo ha incrinato quella esperienza estetico-estatica, ma mi ha anche spinto ad abbandonare le truppe cammellate del Cammel. Per provare a giustificare davanti a me stesso la mia vigliacca defezione, in questi giorni mi sono interrogato più volte sulla causa dell’imbarazzo che lo story-tellingdi Adani mi ha provocato. ¿Por qué, Lele querido?
La risposta – come ormai mi capita sovente – è giunta scrollando su TikTok. Lì, mi è riapparsa la ben nota clip del Gol del Siglo di Maradona agli Inglesi narrato dall’intellettuale, scrittore e relator Victor Hugo Morales: il raffronto tra la telecronaca di Morales e quella di Adani mi ha chiarito la motivazione del mio sbrigativo voltagabbana.
Prima di inoltrarmi nella breve spiegazione, vorrei sgomberare il campo da alcune considerazioni così banali da non giovare alla mia argomentazione: sì, Morales gode di una raffinata formazione umanistica mentre Adani rimane un nerboruto uomo di campo; sì, la Weltanschauung di Morales, che è stato incarcerato dal regime uruguaiano per le sue posizioni politiche, è se non più radicale almeno più composita di quella di Adani; sì, la parlata rioplatense è più sexy dell’accento modenese.
Il mismatch qualitativo fra Morales e Adani, che secondo me rimane comunque uno dei migliori giornalisti sportivi italiani, è talmente ampio che non sarebbe elegante istituire un parallelismo fra i due – se solo non fosse evidente che il legittimo progetto del secondo è di seguire le inafferrabili orme del primo, ovvero di consacrarsi alla storia della cultura calcistica raccontando una vittoria mundialista dell’Argentina. Ma ora non vorrei indulgere in una facile preferenza tout court per Morales ai danni di Adani, bensì preferirei soffermarmi su una questione strutturale – la contrapposizione stilistica fra il relato di Messico ’86 e quello contro il Messico del ’22.
La questione – al pari di tutti gli affaires di un certo interesse – riguarda la diatesi: il commento di Morales è passivo, la telecronaca di Adani è attiva. Provo a spiegarmi. Morales appare sopraffatto, si lascia annichilire dall’evento, è sconvolto da ciò che vede. La sua narrazione inizia dove quella di Adani finisce – ovvero con una iperbole. Quando Maradona ancora arrancapor la derecha, Morales lo chiama infatti – con un’azzeccata prefigurazione – “el genio del fútbol mundial”. Questa frase è l’ultima che Morales pronuncia ancora in pieno possesso delle proprie facoltà cognitive, le quali si offuscano gradualmente di pari passo con lo sviluppo sublime dell’azione.
Subito dopo la serpentina cosmico-storica, il linguaggio di Morales regredisce allo stato di musica primordiale: “ta-ta-ta-ta-ta-ta”. Ecco che l’intelletto indietreggia di fronte alla meraviglia e che lo pneuma contemplativo soppianta la psiche razionale.
Dal linguaggio alla musica, e dalla musica al pianto: il golazo induce le lacrime del relator – “es para llorar”. Morales sembra ripercorrere contropelo le teorie gnostiche che individuano nel lamento – e quindi nel pianto – l’origine di ogni logos. Una volta raggiunto il grado zero della parola, la descrizione del gesto atletico di Maradona diventa impossibile: non a caso, Morales si rinserra nel silenzio; la favella del letterato si riduce ad afasia. In quanto privo di significato, il momento più significativo del commento è un passaggio a vuoto: “gracias Dios […] por este…”. L’incompletezza della frase segnala la vittoria dell’avvenimento sul soggetto: a causa della numinosità dell’atto, Morales finisce per rinunciare a se stesso.
Par contre, Adani rappresenta il Sé ipertrofico che tenta di imporsi sulle circostanze. La rasoiata di Messi quasi non ha ancora concluso la sua traiettoria che la voce di Adani inizia con disinvoltura a prevaleresulle immagini. Il legato di Adani è impeccabile; nessuna esitazione rallenta il suo discorso. I riferimenti ai milieux rosarini della Bajada e della Perdriel, che in qualsiasi altro contesto mi avrebbero non poco emozionato, suonano purtroppo come logore gags che un attore consumato ha provato e riprovato in camerino. La telecronaca di Adani scorre inesorabile e macchinica come il calcio di Guardiola – nessuna improvvisazione può frapporsi fra una battuta e l’altra.
Solo un indispettito Bizzotto tenta di arrestare il verboso profluvio, ma è operazione vana. In scena va un monologo.
Addirittura un monologo rancoroso contro una parte degli spettatori – i detrattori non proprio numerosi di Messi. Mentre il racconto di Morales – sgravatosi della pesantezza dei personalismi – veleggia imperturbabile come un barrilete e si risolve in un muto magnificat di Maradona, la narrazione di Adani rimane impigliata in dibattiti spiccioli e non può librarsi oltre la logica amico-nemico. Insomma, paradossalmente l’homme de lettresMorales riesce a sbarazzarsi di se stesso e perviene a una stupidità mistica; il pasionario Adani si propone invece di piegare la realtà alla propria rappresentazione e si smarrisce nei labirinti che la sua stessa ragione ha costruito. Si tratta di una verità che mi costa ammettere. Perdóname, Lele querido.