Il potere (mediatico) dei più buoni.
Romain Gary diceva che la provocazione è una forma di legittima difesa, ed è con questo spirito che vogliamo fare gli avvocati del diavolo qatariota. Sia chiaro, in più occasioni abbiamo criticato la scelta di affidare il Mondiale allo Stato arabo: per l’assegnazione in sé, per i rapporti poco chiari che hanno portato a quell’assegnazione e soprattutto per il trattamento dei lavoratori – che poi il fatto che si giochi d’inverno, e con l’aria condizionata, dovrebbe bastare a squalificare l’evento in partenza.
Eppure dopo tutte le solerti prese di posizione di quel marciume che sa di buono dell’Occidente, sempre in prima fila quando si tratta di bacchettare, stigmatizzare e mostrare la retta via, dopo tutte le battaglie impegnate, i caschi arcobaleno, gli appelli degli artisti, le frasi fatte dei politicanti, le magliette di protesta, i #boycott (in teoria) e le campagne di sensibilizzazione (in pratica), dopo tutto questo copione così prevedibile e stucchevolmente impegnato quasi quasi ci viene da empatizzare con gli sceicchi. Volevate un #equalgame? E ora invece andate in un Paese che sconsiglia agli omosessuali le “manifestazioni pubbliche di affetto”, e l’avete pure voluto voi! Boicotterete? Sì come no, davanti alla televisione.
Scherzi e provocazioni a parte, per fortuna non siamo i soli a mettere in discussione la favola del lupo cattivo qatariota – narrata per giunta dal cappuccetto rosso occidentale.
Sul prestigioso settimanale tedesco Die Zeit, come riporta “Lo Slalom”, Oliver Fritsch ha fatto un po’ la parte del battitore (e del pensatore) libero, denunciando il doppiopesismo e l’approssimazione circa i discorsi sullo stato arabo: il Qatar non è l’Arabia Saudita, il senso del suo contributo, dove si arriva addirittura a far sparire giornalisti scomodi (ma ciò nonostante si corrono granpremi e disputano Supercoppe). «È più liberale dei suoi vicini», si trova in un percorso di transizione verso quella modernità tanto cara alle nostre latitudini ed è alle prese con «cambiamenti che richiedono tempo».
Quindi Fritsch ha affrontato il tema dei lavoratori e delle loro condizioni, tragiche – in casi estremi – anche nei paesi avanzati fino a sfociare in un disumano sfruttamento (la stessa Germania ne sa qualcosa, come dimostrano i lavoranti dell’Est Europa malpagati e stipati nelle tendopoli, per non parlare del capolarato nostrano, con “schiavi” mandati nei campi – e non solo al Sud – per neanche 2€ all’ora). Sui diritti civili, continua poi l’articolo, noi ci sentiamo tanto evoluti ma «nessun professionista ha fatto coming out nei campionati di calcio d’élite tedeschi. E anche nella Germania ovest anni Cinquanta l’omosessualità è stata punita a lungo». Negli ultimi anni in Qatar le condizioni sono cambiate, e neanche poco, ciò nonostante l’Occidente predica sempre dal centro del mondo, pretendendo di dettare modi e tempi del dibattito.
Basta prendere l’ultima emergenza globale, quella climatica. Dopo aver sfruttato e depredato per decenni le risorse planetarie, ed aver così pompato le nostre economie, ora pretendiamo che Cina, India e altre taglino i combustibili fossili dall’oggi al domani. Chissenefrega se la Cina ha un serio piano per rinunciarci nei prossimi decenni, noi abbiamo deciso oggi che non c’è più tempo; scurdammoce o passat, anzi condoniamolo. Ecco il solito doppiopesismo occidentale, che con il tema Qatar ha raggiunto livelli patologici: intanto l’assegnazione, come se fosse stata l’unica “corrotta” al contrario di quelle sempre trasparenti europee. Nel 2011 era stato addirittura Der Spiegel a spiegare come «i tedeschi non dovessero l’assegnazione del 2006 solo al loro fascino», per non parlare di altre designazioni ancor più critiche.
Ma poi il Qatar, prosegue Fritsch, è ormai partner stabile dell’Occidente: non solo in Francia ma anche in Germania è inserito in gangli vitali dell’economia, con quote pesanti di Deutsch Bank e Volkswagen. «In questi casi i soldi sono ovviamente ben accetti, forse perché assicurano posti di lavoro ai tedeschi. Anche altre società del Paese stanno facendo affari con il Qatar. L’emirato non è solo un finanziatore del terrorismo. A settembre, il Qatar ha permesso a 60.000 rifugiati di lasciare l’Afghanistan. Joe Biden e Angela Merkel hanno ringraziati per questo». Nel frattempo l’autore si domanda se i politici pro-boicottaggio siano disposti a far chiudere ai tedeschi i propri conti correnti, o a sconsigliare l’acquisto di una Golf. Da qui la conclusione:
«Il Qatar si sente un capro espiatorio. Altrove la situazione non è migliore né peggiore. In Qatar a nessuno viene mozzata la mano come in Arabia Saudita, dove a volte i giornalisti vengono assassinati (…) Non si sente una parola critica sul Messico, uno dei tre paesi in cui si terranno i Mondiali del 2026, anche se infuriano le guerre tra i cartelli della droga e mettono in pericolo la vita dei turisti».
Quelli contro lo stato arabo diventano allora i ritornelli superficiali di un Occidente che, come al solito, giudica e condanna per sentirsi migliore: più gli altri sono troglododiti e corrotti più noi siamo progrediti, integerrimi e civili, una dinamica un po’ alla Dorian Gray. Da qui il caravanserraglio di politici, giornalisti, giocatori, dirigenti che invocano sanzioni e boicottaggi, boicottaggi e sanzioni, per poi finire inevitabilmente a “sensibilizzare”: iniziative da hashtag e poco più, condivise peraltro da utenti in larga parte ignoranti e che si affidano a news sbocconcellate dai telefonetti – ah, le fake news!. L’importante è avere un’opinione (sempre quella giusta), non formarsela: e così tanti pensano che Qatar e Arabia Saudita siano la stessa cosa, in fondo stanno vicini e sono arabi, o che il Qatar sia quello di dieci anni fa (non lo è nemmeno l’Arabia Saudita, figuriamoci).
Insomma, abbiamo concluso l’arringa difensiva e chiediamo, vista la non credibilità dell’accusa, di prosciogliere il Qatar da tutte i capi d’imputazione: una bella sentenza di non luogo a procedere anche perché a tutti va di condannare gli sceicchi ma a pochi (anzi a nessuno) di far valere la condanna. Dopo le tante belle parole d’altronde, come si chiedeva Oliver Fritsch, chi sarebbe disposto a passare ai fatti? Quale giocatore boicotterebbe la manifestazione restando a casa in solidarietà con i lavoratori, e quale giornalista rifiuterebbe di scrivere una cronaca della partita per la situazione dei diritti civili? Ancora, quale politico metterebbe a rischio i rapporti bilaterali con il Qatar per tenere il punto?
Domande retoriche, ça va sans dire. Invece già sappiamo come finirà tutto: a tarallucci e arcobaleni, che lì il vino non si può neanche bere.
Sì insomma il principio è quello del casco colorato di Hamilton a Jeddah: qualche maglietta o dichiarazione impegnata dei giocatori, gli immancabili hashtag su Twitter, una manciata di tifosi sugli spalti con in faccia il trucco dei colori dell’iride. Il tutto con il solito codazzo mediatico pronto ad immortalare il gesto della “iraniana coraggiosa allo stadio, che sfida gli oscurantismi e guarda a Occidente”, o a fare da megafono alle parole di qualche improvvisato tribuno della plebe che esprimerà sostegno da Doha alla comunità LGBTQ+. Così, in un freddo dicembre in cui saremo a casa per la dodicesima ondata, pronti alla sesta dose e incollati alle televisioni per le partite che forse avremmo dovuto boicottare, vivremo tutti alla occidentale: ipocriti e doppiopesisti, ma felici e contenti.