Ritratti
15 Marzo 2025

Nando De Napoli, elogio della pigrizia

"La miglior pensione è guardare il calcio dal divano".

Fernando De Napoli, detto Nando, nasce a Chiusano di San Domenico in provincia di Avellino il 15 marzo 1964. Mediano di rottura, quelli che si chiamavano tuttocampisti e che forse oggi non esistono più. Campione nel Napoli di Diego Armando Maradona. Ma orgogliosamente soddisfatto di aver indossato la maglia del suo Avellino. “Un sogno, la serie A con l’Avellino”. Umiltà, ribattezzato “Rambo” negli anni d’oro di un Napoli in cima all’Italia e all’Europa, riscatto di un popolo, ma al cinema forse è più semplice, a proposito di orgoglio partenopeo, rivederlo in Massimo Troisi, in quella sua romantica timidezza che sfiora la pigrizia.

“Ricomincio da tre”, Massimo da San Giorgio a Cremano, spesso in pigiama. La scena cult quando si interroga sul nome di un figlio “Massimiliano o Ugo”? È in abiti da riposo, of course. Ma Troisi è spesso anche la vita semplice, gli amici per un caffè sotto al palazzo in questo e altri film, ovvero Lello Arena. Ecco, e anche “Rambo” De Napoli, è poco veterano della guerra in Vietnam, niente vetrina hollywoodiana, e molto di più “starsene con gli amici di infanzia” come tranquillo desiderio di vita.

«No, non è correndo, non è nel tumulto delle folle e nella calca di cento cose scompigliate che la bellezza si schiude e si riconosce».

E ancora: «La solitudine, il silenzio, il riposo sono necessari ad ogni nascita; se talvolta un pensiero o un capolavoro scaturisce in un lampo, è perché l’ha preceduto una lunga incubazione di vagabondaggio ozioso». Lezione di vita di quasi un secolo orsono di Jacques Leclercq che nel suo “Elogio della pigrizia” celebra la bellezza dell’indolenza, la dolcezza della lentezza, per poter pensare, ammirare e rendere la vita veramente umana. 17 novembre 1936, Jacques Leclerq, moralista e sociologo, docente all’Università di Lovanio lo spiega dinanzi alla Libera Accademia del Belgio.



Ma in campo no. Sul rettangolo di gioco, verde come il suo amato Avellino, Nando De Napoli ha vissuto e fatto vivere gli anni d’oro del grande Napoli. Polmone dell’undici che con Dieguito “fa squagliare il sangue dentro le vene”. Titolarissimo della squadra magica…della Ma.Gi.Ca, con il Pibe, Giordano e Careca. Una capigliatura, e non solo quella, che lo portano ad una straordinaria somiglianza con Sylvester Stallone, ma la grinta, lo spirito da battagliero puro, tutto in campo, diventa poi, a casa, nella verde Irpinia, mitezza e timidezza, pigrizia di una felice vita senza faticare troppo.

«E quando Platone conversava familiarmente con i suoi amici nei giardini dell’Accademia, non praticava davvero quel che il nostro secolo chiama ‘vita intensa’. I suoi dialoghi, del resto, non sono tutto vagabondaggio?» la lectio di Jacques Leclerq, efficace ieri come oggi, e forse ancor di più, se si considera che il timore di non capire più l’essenza della vita era già all’attenzione dei pensatori cento anni fa, ben prima del telefono cellulare, delle chat, dei selfie ad ogni passo, dei profili social da aggiornare real time.

“L’ozio è un’arte”. 1935, Bertrand Russel ricorda una storiella: un turista vede a Napoli dodici mendicanti sdraiati al sole e disse che avrebbe dato una lira al più pigro di loro. Undici scattarono in piedi e iniziarono a vantare la loro pigrizia. A chi diede la lira il turista? Al dodicesimo che rimase a godersi la tintarella, “era un uomo che sapeva il fatto suo”. De Napoli, sessantuno anni, ben portati, il calcio oggi da ammirare comodamente seduto su qualche morbido “pezzo” del salotto, e ieri vissuto, sin da giovanissimo quando muove i primi passi nella Mirgia di Mercogliano.

Poi partenza per la riviera romagnola, al Rimini, allenato da un certo Arrigo Sacchi, e quindi si torna a casa, ma dalla porta principale, serie A con l’Avellino. Casacca verde del cuore, massima divisione, fascia di capitano indossata da Salvatore Di Somma, icona calcistica per i tifosi del “lupo”. E in campo passaggi, vittorie, arrembaggi, emozioni, sconfitte, lotta dura senza paura, con compagni del calibro di Franco Colomba, Ramón Díaz, Gerónimo Barbadillo. In panchina a stagione in corso si siede Ottavio Bianchi a decidere la formazione. Insomma “what else”?



Ma per De Napoli Fernando detto Nando, il bello deve ancora arrivare. E da Avellino a Napoli è un’ora di treno più o meno. Cinquantotto minuti, cinque miliardi e otto, quelli sborsati da Corrado Ferlaino per cambiare colore della maglia, ma la pelle quella forse no, sempre verde avellinese. In campo, però, azzurra, e invece del lupo lo stendardo d’onore è il “ciuccio”. Divisa amata da milioni di appassionati, che per il Napoli si va al “San Paolo” senza se e senza ma, amore puro, tutti a Fuorigrotta. E dove gioca Nando in quegli anni arrivano due scudetti (1986-87 e 1989-90) una Coppa Italia (1986-87), una Coppa Uefa (1988-89), una Supercoppa italiana (1990).

A Napoli ritrova anche Ottavio Bianchi, il tecnico del suo Avellino, al quale resterà comunque riconoscente anche se l’epilogo non fu dei migliori, c’era anche la firma di De Napoli nel famoso comunicato che ne chiedeva l’addio dalla città di San Gennaro dopo aver dilapidato il bis scudetto nella stagione 1987-88. Intanto, in mezzo al campo si fatica, per la pigrizia c’è tempo, insieme a Salvatore Bagni, a dominare il centrocampo, a coprire le scorribande di Maradona e compagni dell’attacco, a guardare le spalle alle punte e mantenere alta la guardia senza farsi scavalcare.

Il senso della vita. L’essenza delle cose belle, vere. Da azzurro ad azzurro, arriva la Nazionale, esordio dando il cambio a Carletto Ancelotti all’inizio del secondo tempo della partita amichevole Italia-Cina (2-0) disputata, proprio tra “le mura di casa”, il San Paolo di Napoli dove diventerà campione. Mondiale 1986 in Messico, competizione poco fortunata, l’Italia campione del mondo del 1982 non si conferma tale, ma Nando è baluardo sul quale puntano le fiches Enzo Bearzot prima e Azeglio Vicini, poi. In mezzo al campo si lotta e si combatte, De Napoli Fernando detto Nando è una sicurezza, prestazione garantita, serietà e impegno anche.



Con la Nazionale passando per gli Europei del 1988 in Germania, arriva sino ai Mondiali 1990, quelli di casa, dove l’avventura si interrompe sul più bello, sempre lì, tra le mura amiche del “San Paolo”, quella volta beffarde. Un gioco perverso. Il compagno di squadra Maradona esulta ma lui no, stesso stadio, ma maglie diverse e destini opposti. Maglia azzurra sino al 1992, ma Arrigo Sacchi non è più quello di Rimini e lo spazio per Nando De Napoli non c’è più. Si porta per sempre i ricordi della camera divisa con Vialli, e poi la nazionale con Roby Baggio.

“Ho cantato l’inno settanta volte. Sempre a squarciagola, sempre con orgoglio e felicità”.

Valori senza prezzo. E poi un titolo in Nazionale lo porta comunque a casa, il Rambo italiano. Unico calciatore dell’Avellino a disputare un mondiale di calcio con l’Italia. Il ciclo finisce, Napoli ha toccato il suo massimo, è tempo di andare. Il pigro De Napoli punta dritto verso nord, sotto il Duomo, dove si festeggia Sant’Ambrogio, sponda rossonera. Al Milan il guerriero in campo ma a casa uomo da divano, mette in bacheca altri due scudetti (1992-93 e 1993-94) e la Champions League (1993-94), quella che piace a tutti ancora chiamare Coppa dei Campioni.

E “Rambonando” la colleziona con poca fatica, ammettendo, poi, di non aver dato al Milan, quello che Silvio Berlusconi aveva dato per lui, oltre sei miliardi delle vecchie lire per il cartellino e le speranze di una seconda giovinezza calcistica. Ma siamo al giro di boa, il viaggio verso rotte sconfinate già fatto, si va verso la navigazione sotto costa, la maglia della Reggiana, poi al Cagliari di Giuan Trapattoni, il ritorno in Emilia, l’addio al calcio giocato, tra problemi fisici assortiti.

A Reggio Emilia continua nel mondo del football, team manager della Reggiana, ma poi l’associazione calcio nata nel 1919 dalla fusione tra “Reggio Foot-Ball & Cricket Club” e “Audace Reggio” capitola per un fallimento prima di rifondazioni e rinascite, “moda” mai sopita di un calcio moderno, troppo finanza e poco pallone, calzoncini e scarpe chiodate.

Per De Napoli Ferdinando da Chiusano San Domenico è tempo di altrove, di avventure imprenditoriali. Un’enoteca nel Bolognese con un socio. Il vino. Tra i simboli della lentezza, di quello che oggi si usa (e abusa) definire “slow”. Tempi lunghi. La cura delle viti. La vendemmia. Vino nelle botti e la “vecchiaia” a farne maggiore qualità. Mai berlo subito, occorre farlo decantare. Gli esperti suggeriscono per le etichette pregiate, in particolare provenienti dalle uve scure di stapparne la bottiglia, farlo “riposare” e poi, solo poi, assaporarlo, e rigorosamente dopo aver effettuato un lungo rito olfattivo.



«De Napoli, lei è come il buon vino della sua terra» gli disse Silvio Berlusconi negli anni del Milan. Ma la sua fu un’esperienza breve. «Non era adatto, ho conoscenza superficiale, diciamo territoriale di Aglianico e Falanghina, Fiano, Greco di Tufo e Taurasi. Ma non sono un bevitore, né un esperto e nemmeno un imprenditore. Io sono stato un mediano». Una vita da mediano, anche lui come l’Oriali di Luciano Ligabue, ma a Milano ha battuto la sponda rossonera. Poi si torna a casa. «Ci sono mia madre, la mia famiglia, mia nipote». Niente calcio se non dal divano.

Avellino ancora. Nel cuore. Sempre. «È dove sono nato e sono tornato, qui sto bene». Il ritorno dove sta la famiglia e dove ci sono ricordi, anche brutti. «A sedici anni giocavo a pallone, ero felice. Poi novembre dell’Ottanta cambia tutto. Il terremoto, la paura. Noi ragazzi che andavamo a cercare i morti sotto le macerie, immagini che ti rimangono dentro. Capisci cosa conta nella vita».

Oggi Nando De Napoli, nel suo “dolce far niente”, è un nonno con la nipote Matilde in braccio e il calcio ma solo “da remoto” come abbiamo imparato a definire il mondo a distanza da quel maledetto 2020. «Il mio calcio comincia e finisce sul divano di casa. Angelo Peruzzi è un grande, vive a Blera (comune nel Viterbese di poco meno di tremila abitanti ndr) e ha detto che gli sembra il posto più bello del mondo». Ha giocato con Maradona e van Basten e oggi si gode la pensione con il sorriso. «Sono un Rambo pigro, un po’ timido, lontano dai riflettori, ma felice».

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