Italia
06 Maggio 2022

Lo Stadio Olimpico è in finale

Un'atmosfera che a Roma mancava da un ventennio.

Uno stadio così, a Roma, non si vedeva probabilmente dai tempi dello scudetto; per la precisione dalla partita scudetto, quel Roma-Parma del 17 giugno 2001. Uno stadio così caldo, così gremito in ogni ordine di posto (63.940 mila ufficiali, ma la sensazione è che fossero di più) ma soprattutto così pieno di bandiere, ovunque e in ogni settore. Una festa di popolo, colorata, rumorosa, esasperata, specchio di una tifoseria frustrata negli ultimi anni ma mai così viva. Un popolo metropolitano ma antico, degli abissi ma anche del centro; un popolo che sembra non aver risentito – almeno esteticamente – del progresso, ancora caratterizzato e caratterizzabile, nei corpi e nei volti, come romano e romanista.

Ieri a Roma c’era un clima strano, anche esagerato e irrazionale. Eppure certe cose, obiettivamente, la ragione e la logica le spiegano poco. Il punto non è allora una coppa come la Conference, manifestazione modesta creata dalla UEFA solo per spremere ancora di più la vacca pallone, di certo non uno di quei tornei che segnano la storia di un club di alto livello – con tutto che poi le partite bisogna vincerle, e che la Conference rappresenta pur sempre un trofeo (che a Roma manca ormai da 14 anni), soprattutto un trofeo internazionale (l’ultimo giallorosso una Coppa Anglo-Italiana nel ’72, cinquanta anni fa).

Non è tanto il risultato in sé, il dato della finale di Conference League, quanto invece l’entusiasmo ricreato, l’orgoglio ritrovato.

Come magma, nelle viscere della città eterna il tifo romanista negli ultimi anni ha ribollito in attesa di prorompere alla prima occasione utile. E questo enorme potenziale lo hanno compreso alla perfezione i Friedkin e Mourinho, che hanno il grande merito di aver percepito la forza del vulcano sul quale erano seduti. La passione totale e totalizzante del tifo giallorosso, ancestrale e infinita, che ad oggi – non ce ne vogliano altri – rende quello romanista il tifo più caldo in Italia, forse insieme solo a quello salernitano (con le dovute proporzioni, naturalmente).

La proprietà è stata lungimirante ad alimentare questo sacro fuoco romanista, consapevole di tutti i limiti dell’approccio della gestione precedente, quella di Pallotta, che i tifosi li aveva divisi, dati per scontati, a volte anche insultati (celebre il “fucking idiots”). E i Friedkin hanno attuato questa politica con prezzi allo stadio stracciati, iniziative sociali, social network usati alla perfezione, gesti simbolici ma carichi di significato: come quello di regalare ai 166 tifosi presenti a Bodo, gli “eroi” che dovettero sorbirsi il 6-1 e la neve, il biglietto per la finale di Conference League; gli altri tagliandi a disposizione della Roma saranno sorteggiati tra gli abbonati, ma saranno anch’essi gratuiti. Chapeau. Una gestione diametralmente opposta a quella perseguita sull’altra sponda del Tevere.



E poi Mourinho, ieri addirittura in lacrime. Altro che l’opera dello spin doctor più abile del pianeta, come ha ipotizzato qualche maligno. La commozione di Mou era sincera, e rappresenta la rivincita di un uomo dato per bollito troppo presto, ma soprattutto restituisce un uomo finalmente amato che ha bisogno di essere amato dai suoi – era dai tempi dell’Inter che non succedeva a tali livelli. Perché a Roma non sono solo i giocatori “disposti a gettarsi nel fuoco per lui”, secondo quella celebre frase ai tempi di Paolo Condò, ma lo è ancora di più il suo popolo, il tifo romanista, disposto a fare di tutto per lui e per cui davvero oggi Mourinho è un intoccabile, un nume tutelare. Chi attacca Mourinho, banalmente, attacca la Roma.

Così il tecnico è riuscito a creare un asse con i tifosi che salta le intermediazioni, in cui lui è sindacalista del suo popolo, assurto quasi a sineddoche, a parte per il tutto. Un Mourinho che incarna il romanismo, ostinato, testardo, contro tutto e tutti, anche troppo. Una narrazione profondamente sua, che a Roma funziona terribilmente e mira a rendere la squadra grande di nuovo grazie innanzitutto allo spirito del luogo. Mourinho il populista, il popolare, il rappresentante politicamente scorretto del romanismo contro l’establishment, l’allenatore tifoso che parla proprio come parlerebbe il tifoso. Il condottiero di un popolo che si è sentito per molti motivi umiliato, tradito e deriso, e che con il portoghese in panchina percepisce di poter recuperare l’orgoglio e passare al contrattacco.

Un Mourinho che non a caso di “vittoria di famiglia”, che dice di fare tutto ciò «non per me stesso ma per i giocatori, per i proprietari, per la passione di questa gente». E che giura di essere «emozionato non per me ma per gli altri».

Non è un caso allora che la squadra assomigli sempre di più al suo allenatore. Una squadra verso cui Mourinho ha usato il bastone (e neanche poco) e la carota, che ha protetto ed esposto, ma che è riuscito con il tempo a plasmare caratterialmente: perché José aveva ragione, era la squadra a dover assomigliare a lui e non il contrario; i giocatori a dovergli venirgli incontro, a diventare Uomini con la U maiuscola e ad acquisire mentalità, non lui a dover cambiare approccio.

Con tutti i limiti che la Roma ancora evidenzia in campo, è innegabile il processo di crescita di una squadra oggi molto più solida e consapevole di quanto fosse qualche mese fa – perché i “percorsi” non si fondano solo sul gioco, ma anche sul carattere e sui valori umani. Una squadra certamente inferiore alle prime d’Italia e che magari gioca “male”. Che vince con il Santo Catenaccio e il 33% di possesso palla, “di corto Mou”, per citare il maestro Beccantini, ma che assomiglia sempre di più al suo allenatore. E questo è solo un bene.


Foto copertina As Roma via Twitter


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Federico Brasile

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