Walter Sabatini, una sintesi impossibile.
«Io ho il cervello di sinistra e il corpo di destra, sempre in conflitto». Così parlava Walter Sabatini alla Gazzetta dello Sport nel lontano 2016, svelando – si fa per dire – una dialettica che ne ha segnato l’esistenza. Quel corpo sempre gettato avanti, al fronte e in prima linea: elettrico, marinettiano, febbrile, naturalmente portato a consumarsi. «Mi suicido tutti i giorni, ho sempre avuto poco rispetto per la vita. Sono un suicida senza successo». D’altronde la coerenza è virtù borghese, e Sabatini è uomo troppo sanguigno e mediterraneo per le sintesi tutte orientali tra mente e corpo. Un “europeo crepuscolare e solitario”, si era definito, erede di quella tradizione romantica irrequieta e mai soddisfatta, proiettata irrazionalmente verso l’infinito, amante delle tempeste e non altrettanto dei porti.
Ma a parte questo Walter Sabatini, nel calcio, trova la vita. O forse è il contrario. D’altronde, come ci raccontano i nostri padri, pallone ed esistenza una volta erano pressoché la stessa cosa: si scambiavano riti, linguaggi, stati d’animo.
La vita come pallone rotondo, diceva il grande Vladimir Dimitrijevic, o direttamente il pallone come metafora dell’esistenza, per citare Sartre. Per Walter Sabatini è ancora così, a 360 gradi: «per me il pallone è una sfera magica, l’Aleph di Borges, ci vedo l’universo intero, mentre altri notano solo la sfera di plastica». Altri, ormai tanti altri. Magari anche i suoi ex datori di lavoro, ma in generale tutti coloro che hanno trasformato il football in metafora non dell’esistenza bensì del business, assecondando una deriva che ha fatto del gioco più bello del mondo uno show di urla sguaiate, abuso di immagini, calciatori influencer e highlights montati in serie. Uomini e donne convinti che il calcio, diventando “spettacolo”, migliori.
Sarà che noi europei abbiamo scelto l’America sbagliata: quella del Nord, anziché quella del Sud. Qui, in una terra abituata alla mistica, il fútbol diventa religione di popolo, e non per modo di dire; può capitare che un tifoso del Racing de Avellaneda porti con sé il teschio del nonno defunto per farlo partecipare ai festeggiamenti del titolo o che Julio Roque Pérez – sostenitore del Godoy Cruz, cresciuto in miseria e morto in povertà – vinca la lotteria ma ceda tutto alla propria squadra del cuore: “io ho quel che ho donato”, avrebbero detto i Latini e D’Annunzio dopo di loro. Eppure di storie così il Sudamerica ne regala centinaia, migliaia. Sarà per questo che Walter va lì a cercare il talento, dove ancora è puro, non inquinato dall’omologazione ottusa delle nostre scuole calcio, impantanate in moduli e schemi fin dai tempi dei pulcini.
Ma cosa ne vuole sapere, chi parla di quei luoghi come del terzo anzi del quarto mondo: chi tira in ballo la corruzione solo perché non ha mai avuto l’occasione di sporcarsi – o peggio, l’ha avuta e la tiene ben nascosta. Sabatini in quel mondo di mezzo di procuratori, aspiranti affaristi, intermediari improvvisati ed entourage infiniti ci ha sguazzato e anzi ci si è proprio immerso, al di là del bene e del male. «Non permetto a nessuno di offrirmi neanche un caffè. So che il mio mestiere comporta il rischio di accuse cariche di frustrazioni, ma non mi interessa. La corruzione è del mondo, a volte è stata benedetta perché ha implementato nella storia la costruzione degli Stati. Io non sono una mammoletta, ma considero normale l’onestà».
Una parola, onestà, ormai abusata e inflazionata, trasformata in slogan da ripetere sillabato. Walter l’avrà conosciuta quando era ancora il fondamento della vecchia questione morale comunista, ben prima che fosse ridotta a bandiera social e diventasse l’ideologia idiota degli scontrini. D’altronde lui è originario di Marsciano, provincia di Perugia, un paese riconvertitosi in zona industriale nel cuore stesso dell’Umbria. Luogo di gente gagliarda e battagliera, di tradizione contadina prima e operaista poi. Ex roccaforte rossa che all’arcobaleno della nuova sinistra ha preferito il verde, non tanto delle splendide campagne circostanti bensì del nuovo corso nazionalista salviniano.
E viene in mente, a proposito di “vecchia” sinistra, una frase di Eduardo Galeano che calza a pennello: «il progresso è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti». Ecco, oggi i naufraghi del progresso, nella società quanto nel calcio, sono milioni, sballottati nella tempesta. Convertiti a chi gli tende una mano, traditi da chi li avrebbe dovuti rappresentare.
In questo contesto paradossale, a sentirlo parlare oggi, il ds del Bologna sembra quasi un reazionario: fa l’apologia dei giocatori rissaioli, parla del calcio come di uno sport da uomini veri, critica la deriva tecnologica di cui ormai siamo tutti impiegati e non padroni, come aveva predetto la filosofia tedesca. Eppure «nel calcio, come nella vita, bisogna essere di sinistra. Sempre». Ipse dixit. Walter Sabatini rappresenta insomma un’umanità in via d’estinzione, o meglio dimostra come sia proprio l’umanità ad essere giunta al capolinea, con tutte le sue contraddizioni. Gli stessi procuratori, “male necessario”, che sono pur sempre uomini nel mondo in cui Kevin De Bruyne, per rinnovare il contratto, silura l’agente e si affida un team di data analyst – lui che può permetterselo.
Per restare in tema di Bologna, vecchia sinistra e umanità perduta
Anche qui, nella resa incondizionata agli algoritmi c’è il sintomo di un’umanità al tramonto; di uomini, come scrive Giancarlo Dotto, che non ne possono più di essere umani. «Non sono contro la scienza, la modernità, ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un software che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio non ci sto. Non si tratta di lottare contro Big Data o il Grande Fratello, i numeri sono utili, bisogna tenerne conto, ma l’intelligenza artificiale applicata al calcio ha bisogno di mediazioni. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi deve poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie». Così parlava Walter nel 2017, che più in là si sarebbe levato dalla scarpa qualche sassolino a stelle e strisce:
«Pallotta cerca l’algoritmo vincente, ma io vivo di istinto e il mio calcio non può essere riportato alla statistica».
I computer d’altronde, utilissimi e provvidenziali, da mezzo si sono trasformati in fine. Come può un programma, anche il più avanzato, restituire quelle che nel basket si chiamano “Intangibles”? Cosa ne sa un algoritmo delle sensazioni che suscita un Erik Lamela, ancora diciottenne, mentre «passa in mezzo agli avversari come un puledro che scuote la testa in cerca di libertà», o dell’esultanza di un Marquinhos, all’epoca riserva del Corinthians, che si carica dopo un prodigioso recupero in scivolata neanche fosse una finale di Champions? Ben venga la scienza ma a forza di voler rendere il calcio stesso una scienza, “non sempre esatta” per giunta, come diceva Bearzot, stiamo trasformando il più grande fenomeno sociale planetario in un affare da nerd e statistici.
Che poi, senza la pratica, la dottrina sabatiniana sarebbe solo materia da bar, retorica reducistica da calcio di provincia: le mille sigarette, il sesso disperato, i viaggi romanzeschi, le trattative thriller, la critica agli algoritmi come sacro dogma; in generale tutta l’epica di un uomo che fa a cazzotti con se stesso ancor prima che con gli altri. Perché il pallone, evidenza nuda e cruda, è fatto di campo. E in campo servono i calciatori forti per vincere le partite, quelli che Walter insegue da decenni: fin dai tempi della Lazio, dei vari Pastore e Ilicic a Palermo, delle mille speranze e milleuno delusioni giallorosse. Qui, nella città eterna ma spesso priva di memoria, aveva costruito la squadra più forte dell’ultimo ventennio: una squadra a cui, per una maledizione chiamata romanismo, sono mancati unicamente i trofei.
Basta ricordare come scendeva in campo la Roma il giorno del ritiro di Totti (maggio 2017), nella stagione aperta proprio dalle dimissioni del ds (ottobre 2016): Szczesny; Rüdiger, Manolas, Fazio, Emerson Palmieri; De Rossi, Strootman, Nainggolan; Salah, El Shaarawy, Dzeko. In panchina gente del calibro di Alisson, Paredes, Perotti, lo stesso Totti.
D’altronde l’abilità di un direttore sportivo sta anche qui: nel prendere Alisson (a 7 milioni) malgrado ci sia già Szczesny, nell’architettare una trattativa notturno-futurista pur di arrivare a Nainggolan (prestito di 3 milioni + una prima metà del cartellino a 9, e l’anno dopo l’altra metà) quando il centrocampo è già blindato da De Rossi, Pjanic e Strootman. Per non parlare dei vari acquisti di lusso arrivati a prezzi di saldo: da Marquinhos a Salah, da Manolas a Pjanic, da Emerson Palmieri a Rudiger, da Paredes a Dzeko. Se ci aggiungiamo Nainggolan e Alisson, sforiamo di poco i 100 milioni di euro spesi in cartellini (secondo il portale Transfermarkt, il solo Salah ha oggi un valore di 100 milioni, dopo aver toccato addirittura i 150).
E poi quella frase, che gli avevano rinfacciato alcuni tifosi fin troppo romantici e ingenui: «non dovete affezionarvi troppo ai giocatori». Ma che pensate, che si divertisse Sabatini a vivere di plusvalenze, a vendere talenti e ragazzi che lui stesso aveva scoperto ai confini del mondo? «Cedere Lamela mi ha ucciso», ha confessato tempo fa, ma il calcio contemporaneo è questo: una rincorsa infinita cercando sempre di non rimanere indietro e di sostituire l’insostituibile. Chiedetelo a chi è venuto dopo alla Roma, che non solo non ha saputo trattenere i migliori ma peggio non è riuscito a rimpiazzarli.
Nella capitale però Sabatini si è letteralmente consumato. Una corsa continua fino a perdere il fiato e bruciare i muscoli. Cinque anni come se fossero cinquanta, corpo e testa da dover conciliare per la sintesi obbligata del risultato. Il tutto in un ambiente in cui il pallone scandisce i ritmi della vita, oppio e rito di popolo insieme; surriscaldato dalle grottesche radio romane h24, incendiato da una passione che non conosce purgatorio. Vivere così per uno come Walter, incapace di gestire ma abituato a rilanciare, è stata una sfida prima di tutto con se stesso. Quando poi arrivi alla fine e ti rendi conto che l’oro lo ha conquistato qualcun’altro, corpo e testa, per la prima volta coordinati, cedono insieme.
«Quando arrivai alla Roma, parlai di rivoluzione culturale. Intendevo dire trasformare il concetto di vittoria da una possibilità a una necessità: e questa mancata rivoluzione è il mio più grande fallimento. Il mio vero fallimento non è nei risultati sportivi o nella gestione dei calciatori, ma nel fatto che qui si perde e si vince alla stessa maniera. Questa è la nostra vera debolezza. Mi sento molto deluso». E ancora: «Non aver vinto lo scudetto è il più grande rammarico, la frustrazione che mi porto a casa. Non mi procura rabbia, ma una tristezza cupa probabilmente irreversibile». Torna l’europeo crepuscolare, nostalgico di cose che nemmeno ha vissuto, come avrebbe detto Carmelo Bene. E anche l’uomo incapace di convivere con la sconfitta:
«un qualcosa di intollerabile, di indecoroso, che mi toglie dignità e costringe ad abbassare lo sguardo».
Verdetto inappellabile, fisico prima e metafisico poi; una condanna di numeri e statistiche da cui niente e nessuno può salvare. Perché il calcio «non è drammaticità, ha un lato divertente, ma quando perdi non c’è nulla di divertente». Quando perdi sei solo, come quando muori. Eppure «è nella solitudine e nella sofferenza che si coltiva l’intelligenza sensibile, ben diversa da quella analitica». Sembra di sentire Dostoevskij mentre parla di sofferenza come causa unica della coscienza, invece è un direttore sportivo avvolto in quell’impenetrabile mistero a forma di pallone.
La vita di Walter Sabatini in definitiva è una canzone dell’amore perduto, sempre pronta tuttavia per un amore nuovo. Come quello nato sotto i portici di Bologna: «qui vivo una passione crescente, questa città mi offre ogni giorno qualcosa di nuovo per amare di più». Ancora, ostinato e contrario in un mondo che quelli come lui (e come noi) forse non li vuole più. Nel capoluogo emiliano continua a respirare calcio, abita in una via che un tempo ospitava un postribolo – «era la strada delle prostitute. Un posto meraviglioso» – e legge in piazza Verdi Pasolini per i 110 anni del club. Quello stesso Pasolini che, dopo essere stato un aspirante emancipatore del mondo, scriveva verso la fine:
«Mi sono reso conto di una cosa che scandalizzerà i più, e che avrebbe scandalizzato anche me, appena dieci anni fa. Che la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Cioè, il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo».
Anche lui umano, troppo umano. Fermato solo dalla morte, quella che Walter ha sfiorato e visto in faccia: «mentre ero in coma penso di aver visto il paradiso, sembrava un supermercato». Questo cazzo di consumismo, ha ucciso anche Dio.