Interviste
30 Aprile 2021

Piero Chiambretti: l'unico e la sua proprietà

Intervista al più grande sperimentatore nazionalpopolare della tv.

«Io quest’anno compio 65 e pensare che tra cinque anni ne faccio 70 è un qualcosa che mi ammazza. Sono per la logica avanti i giovani, quindi mi sento in difetto ad avere un posto nel paradiso televisivo quando credo che possa esserci qualcuno più giovane di me». Cosi Piero Chiambretti, il re della televisione, ci accoglie al telefono. Lo showman valdostano, tra un balsamo e una battuta irriverente, ci spiega innanzitutto cosa significa fare televisione oggi. Sviluppare, in un’epoca che richiede immediatezza, una narrazione al passo con i tempi ma che non sia schiava dei tempi

«Io ho vissuto uno dei momenti migliori della televisione. E anche il cambio di una generazione, non solo di età: il passaggio dal bianco e nero alla tv a colori, dall’analogico al digitale; ho visto cadere il muro di Berlino, ho vissuto la caduta dei partiti del passato, della Prima Repubblica, e poi è arrivata la Supersega, la Superlega, che ha tentato di stravolgere il calcio come lo abbiamo sempre conosciuto».

E ancora: «Quando ho iniziato chi la diceva più grossa veniva subito portato nei programmi di intrattenimento. Adesso, mi permetto di dire, anche se è un po’ nichilista: hai un idea? Tienitela. Meglio non avere idee. È molto meglio migliorare quello che già c’è. Oggi c’è una paura talmente grande di rischiare il posto o i pochi soldi che girano, le cose al buio non le prova più nessuno. L’unico in Italia, e mi permetto di dirlo, sono io. A volte mi è andata bene, altre volte ho preso gli schiaffoni».

Al “Chiambretti night”, oltre un decennio fa
Al “Chiambretti night”, oltre un decennio fa (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Poi, rivolgendosi alla “nostra” generazione: «Invidio ai giovani la possibilità di arrivare ovunque con un telefonino o un computer comodamente da casa. Senza metter il naso fuori, e senza spendere una lira, un ragazzo può entrare in contatto con tutto il mondo. Se un giovane prende la sua mano, la mette su un tavolo e se la taglia con il machete, dopo 10 minuti non avrà più la mano ma avrà 10 milioni di persone che lo avranno visto. Questa è una potenza talmente grande che andrebbe considerata da tutti quelli che non vedono un futuro per questi ragazzi. Magari non c’è il futuro ma c’è il presente, e questa maledetta macchina chiamata internet».

Il presentatore di Tiki Taka è un fiume in piena, ha sempre una risposta pronta, arguta e spiazzante. È immaneggiabile, e passa in breve dalla brillante provocazione al ragionamento da consumato professionista, quasi da padre di famiglia – o meglio del mestiere. Così, ci dice, nel mondo mediatico di oggi, in quella che Guy Debord chiamava “la società dello spettacolo”, domina la fretta e manca la normalità.

«È difficilissimo fare la televisione d’autore, star dietro alla schizofrenia del marketing. E poi la dittatura degli ascolti uccide la creativitàQuesta situazione ha comportato una perdita della qualità televisiva, commerciale, cinematografica e culturale. Tutto si è abbassato. Non c’è curiosità. Non ci sono più figure che possono esser d’esempio, oggi funzionano solo quelli che dicono il contrario di tutto, quelli che sono controcorrente a tutti i costi. Ormai la vera provocazione è la normalità. Il problema è che quando si è normali non si viene ascoltati. Ma nella normalità c’è la vera diversità». Qui entriamo in scena – e nel dialogo – anche noi.

Ecco, la normalità. Forse noi siamo incapaci di gestirla. Lei quindi cosa ci consiglierebbe?

Guarda, io in questo momento sto scrivendo un libro, e non lo sto facendo per egocentrismo o peggio ancora per fini economici, sto scrivendo un libro autobiografico e autodistruttivo che potrà esser una sorta di testamento per mia figlia, che è piccola e non sa ancora bene cosa fa il padre, e anche per tanti giovani che magari vorrebbero fare delle cose ma non sanno come le hanno fatte gli altri e quindi magari si potranno ispirare, almeno come spirito. Uscirà per Natale 2021. Spero che il libro possa anche far comprendere come all’epoca gli scenari fossero diversi, anche più facili per certi versi, ma anche più difficili perché prima, ma come un po’ in tutte le epoche, gli sperimentatori erano visti come demoni.

Chiambretti Getty
Piero Chiambretti sul Parco dell’Ariston, nel 2008, mentre presenta Sanremo: uno sperimentatore nazionalpopolare (Elisabetta Villa/Getty Images)

Torniamo ai giorni nostri, e al suo attuale format di Tiki Taka. Dopo le molte critiche iniziali, adesso gli ascolti le danno ragione. Lo considera un suo successo?

In questa fase della mia carriera mi sono lanciato in un’operazione molto complicata, non ultima l’aver preso una trasmissione non mia e con un nome non scelto da me. Sette anni di una trasmissione fatta con un altro linguaggio. Oggi posso dire di aver vinto serenamente la mia scommessa avendo portato la trasmissione ad ottimi ascolti, anche più alti rispetto a prima. Sì, posso dire che è una grande soddisfazione. Ho cercato di cambiare il ruolo degli ospiti, molti dei quali riescono a dare la sensazione di una diretta nella diretta. Ho tolto quel diaframma dove le persone ospiti sono parte del “cast”.

Non amo quelle trasmissioni dove c’è quello centrale che comanda. Io non sono un dittatore, non sono autoritario, ma sono autorevole, e posso permettermi da fare un monologo, di esser interrotto tre volte e di poter ripartire da dove mi avevano interrotto. Per me rappresenta un esercizio costante di un’inedita televisione in diretta. Tornando al passato, negli anni ’90 ho messo in tv quello che non c’era. Portai la telecamera dentro un carcere, era inedito, era come portare una casalinga di Voghera in mezzo al Sahara. Io sono passato dal fare quello che non c’era in televisione a fare quello che c’è già, ma fatto meglio.

Ho preso un programma convenzionale, banale, del lunedì quando già si sono consumate ore e ore di diretta e ho cercato di partire da fatti reali, dai direttori dei migliori giornali italiani di sport, facendo un programma di calcio ma cercando di costruire un varietà verbale al di là del rigore non rigore. Nell’economia di un programma è molto importante perché apre un varco al conduttore, che interpreta più ruoli (vittima e carnefice). Adesso in molti proveranno a copiare i personaggi, la musica, la location e tutto il resto. L’unica differenza sostanziale sarà che non sarò io a condurlo ma un altro. Alla fine il ristorante lo fa il cuoco.

Piero Chiambretti e Tiki Taka, un matrimonio sul quale all’inizio avevano scommesso in pochi. (Instagram)

Ma quando prepara una trasmissione pensa agli spettatori? E se sì, a quale tipo di spettatore?

Quando preparo una trasmissione, la prima cosa che penso è: a me, come spettatore, può piacere quello che sto facendo? Ovvio che non posso rappresentare tutti gli spettatori, però provo ad immedesimarmi. Cerco di comprendere se uno può esser interessato o meno a vedere un programma. Io non riesco a capire cosa vuole la gente che mi guarda. Fondamentalmente mi baso sui 15 amici che ho, cerco di capire se a loro piace o meno. Quali impennate ha di interesse e quali meno.

Il primo spettatore da soddisfare è il sottoscritto. Non mi sono mai vergognato di quello che ho fatto in carriera. Trovo molta coerenza nei miei prodotti e nel contenuto che diventa brand: i programmi di Chiambretti si riconoscono. Qualcun altro avrebbe preso lo stesso prodotto e avrebbe continuato sulla stessa linea di conduzione, facendo rimpiangere Pardo.

C’è ancora spazio per una narrazione “intellettuale” dello sport? Pensiamo a Pasolini, Brera, Buzzati. O la spettacolarizzazione eccessiva del “prodotto calcio” ha modificato inesorabilmente anche la narrazione?

Il problema è che giornalisti come loro non ne abbiamo più. Non dico se è meglio o peggio, perché sarebbe indecoroso nei loro confronti, diciamo che è cambiato il giornalista sportivo nel corso degli anni. Una volta uno scrittore o un grande giornalista, oltre che appassionato di calcio, veniva prestato a fare interviste. Mi viene in mente sempre Beppe Viola, che in qualche modo portava lo spirito del romanziere, del cabarettista e del giornalista acuto dentro il calderone del calcio. Tutto questo lo elevava.

Ricordo dei pezzi di Arpino, che scriveva per La Stampa, juventino ahimè, ma con grande attenzione per il Torino; i suoi pezzi erano dei romanzi e mi rendo conto che adesso tutto è cambiato, la narrazione, il clima che si respira intorno alle partite. Tutto è cambiato, persino il pallone è diventato più leggero, fatto di materiali sintetici. Prima i palloni ti facevano i tatuaggi in fronte per via delle cuciture che li caratterizzavano. Non si può fare la differenza tra il prima e il dopo, ma si deve dire che sono due epoche diverse non paragonabili. È tutto molto relativo.

A proposito di epoche diverse, come ha visto la vicenda Superlega?

La Superlega stava per dare una mazzata finale ai nostri sogni perché tutti quelli che non sono nati con la camicia, e che per qualche motivo alchemico non sono diventati tifosi della Juventus, del Milan, dell’Inter, del Real Madrid, del Barcellona vincendo quindi negli anni qualcosa, tutti gli altri, se non riescono a cambiare squadra, perché come si sa è più facile cambiare moglie e macchina che club, hanno sempre in fondo quello strano romanticismo di un’epoca che non c’è più, che pensano ogni anno ad agosto che quello sia l’anno del proprio club. E quindi può succedere che il Benevento batta la Juventus, che il Torino batta in rimonta la Roma o che il Chievo vinca lo scudetto.

Con quel tentativo di Superlega ci avrebbero tolto anche questa gioia, di vedere le piccole fare lo sgambetto alle grandi. Ci avrebbero tolto l’ultimo giocattolo rimasto nella società moderna, già avvicinato dal mondo televisivo, dallo streaming, da tutte quelle riprese compulsive in 4K delle mutande dei calciatori. Avremmo rischiato ulteriormente di vedere un calcio plastificato. Con la Superlega avremmo assistito a incontri tra globetrotters, il tutto per arricchire le casse societarie di top club attualmente in difficoltà economica. Alla fine però quei miliardi non sarebbero bastati, e dopo un tot di anni avrebbero allargato ulteriormente il torneo per trovare altri polli da spennare anche perché dopo un po’, una competizione con sempre le stesse squadre, perde d’appeal.

Forse in fondo la Superlega era un modo per redimere il calcio di provincia…

Fosse stato per me avrei fatto un campionato con le sole squadre di provincia. Quel calcio è affascinante, è dove si respira ancora quel clima che fa amare questo sport. Nella mia vita sono andato spesso in trasferta nelle province. Andavo a Bergamo quando l’Atalanta non era la squadra di adesso, andavo in trasferta a Crotone, andai anche a Castel di Sangro. La Curva è stato il mio primo social, poi ho girato tutti i settori arrivando fino a stare in campo e adesso sono a casa. Finora abbiamo visto un calcio da casa, senza poter accedere agli impianti. Un calcio senza calcio insomma.

La Superlega avrebbe stravolto tutto il sistema di pay-tv, soprattutto se avesse escluso grandi club dal campionato di Serie A, e di conseguenza tutto il sistema calcio sarebbe venuto meno. Ai club fondatori della Superlega bruciava il culo considerati i debiti esagerati che avevano accumulato, e dunque quel nuovo denaro per loro sarebbe stata una boccata d’ossigeno. In fondo questi si ritrovano in una condizione per cui se si ridimensionano non sono più superclub, e quindi devono continuare a spendere determinate cifre.

Chiambretti nella provincia italiana, nel calcio migliore.

Invece, da grande tifoso del Torino, cosa vorrebbe da Cairo? Spese folli o ragionevoli?

Io credo che Cairo abbia speso tanto per i tifosi a differenza di quanto dicano i tifosi. Il problema è che ha speso male, prendendo dei giocatori sbagliati. A gennaio quest’anno ha preso Sanabria e Mandragora, e con l’arrivo di Nicola è cambiata la squadra. Gli altri si sono coesi e oggi il Torino gioca pure bene. Ricordo ai detrattori di Cairo, che non ha bisogno di me per difendersi, che la squadra è settima per monte ingaggi, e lo sarebbe stata anche in classifica se non fossero stati persi 22 punti nel girone di andata, dove venivamo recuperati puntualmente.

Chiudiamo parlando di esperienze e umanità: qual è un momento a cui è particolarmente legato nella sua “carriera” sportiva?

Ho tanti bei momenti collegati allo sport. Penso a quando facevo Prove tecniche su Rai 3. In quella trasmissione c’era una parte in cui correvo con un sidecar verso lo stadio più vicino, dove era in programma la partita di cartello. Durante il viaggio cercavo di capire come fosse andata la partita, come avessero realizzato i gol. Nel momento in cui entravo in campo, chiedevo la linea allo studio dove c’era Nanni Loy, inventore della Candid Camera in Italia, e replicavo tutte le scene dei gol. Cosa accadeva? Che le curve mi aspettavano e quando segnavo esultavano con me. Era emozionante. Non tutti l’avrebbero fatta una cosa simile.

E invece lo sportivo che l’ha colpita di più a livello umano?

Potrei citare tanti sportivi ma in realtà racconto questa: José Mourinho, ora al settimo licenziamento, è stato il personaggio sportivo internazionale che venne da noi, per la prima volta, in un programma non di calcio. Volevo renderlo simpatico ai non interisti. L’intervista funzionò alla grande. Pensa che José venne ai nostri studi mezz’ora prima della trasmissione: entrò nel mio camerino in largo anticipo e mi trovò in mutande, facendomi pressing alto prima ancora di cominciare.

Durante la discesa in studio non disse una parola, ognuno di noi pensava alla propria strategia. Lui si fece fare un profilo del sottoscritto con i miei punti deboli. Sapeva anche di un mio film, che io non riconosco dato che ci misero troppe persone le mani, che tirò fuori quando io gli chiedevo della Champions. Questo dimostra che c’è stato un ospite venuto preparato, innanzitutto sul conduttore che lo avrebbe intervistato.

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