Fregarsene del lettore, imparare una cosa nuova al giorno e diventare riconoscibili.
Mario Sconcerti si è sempre tenuto alla larga dal concetto di banalità. La critica graffiante, le letture poco popolari e talvolta gli “azzardi” si possono condividere o meno, ma è indubbio che la sua opinione interessa sempre. Perché, come i grandi, in cinquant’anni di carriera, condita da tantissime esperienze nel mondo del giornalismo e da frequentazioni privilegiate, su tutte quella con l’inarrivabile Gianni Brera, piaccia o no ha sviluppato un linguaggio tutto suo. Riconoscibile.
La prima domanda è prettamente calcistica: chi la incuriosisce di più tra la Juventus di Sarri, l’Inter di Conte e il primo vero Napoli di Ancelotti?
Nettamente la Juventus di Sarri. Perché Sarri è un allenatore importante e la Juventus ha la rosa più importante d’Italia: voglio vedere come si combinano queste due qualità insieme. In questo momento la differenza tra la Juve e la concorrenza è netta, ma ci sono ancora quaranta giorni di mercato, per cui Napoli, Inter e le altre potrebbero in qualche modo avvicinarsi ai bianconeri.
Qual è il confine tra amicizia e giornalismo? Mi riferisco in particolare al caso-Mihajlovic e alla diffusione anticipata, da parte di Ivan Zazzaroni del Corriere dello Sport, di una notizia così delicata. Lei che idea si è fatto di questa vicenda?
Io avrei fatto come Zazzaroni. Nel senso che Zazzaroni ha detto: “C’è un amico che sta male”. Non ha parlato di tumori… e ha dato questa avvertenza soltanto poche ore prima di una conferenza stampa già indetta. Per cui non capisco sinceramente dove sia il problema.
E invece qual è il confine tra giornalismo sportivo e intrattenimento?
Intrattenimento di chi? Del giornalista?
Nel senso che, con riferimento principalmente alla tv, quando guardiamo un programma sportivo non sempre si riesce a comprendere se quello che vediamo è giornalismo o intrattenimento.
A me sembra che di giornalismo sportivo in televisione ce ne sia pochissimo. La maggior parte sono i cosiddetti “Talent”, sono tutti ex giocatori. Il giornalismo è raccontare i fatti. In tv ci si ritrova nelle fasi di commento molto più spinto. Il giornalismo è un’altra cosa rispetto a quello che vediamo in televisione.
Spesso si dice che il ruolo del giornalista sia quello di formare le coscienze o quantomeno di provarci. Volevo chiederle se è possibile formare la coscienza di un tifoso nell’esercizio della sua passione.
Non so chi lo dica che il giornalista debba formare le coscienze, ma non è così. Assolutamente no. Il giornalista deve raccontare i fatti e deve rappresentare la gente davanti ai fatti. Fa da filtro, ma non deve insegnare niente a nessuno. Io faccio questo mestiere da cinquant’anni e non l’ho mai fatto. Formare le coscienze degli altri è una responsabilità che non voglio assumere e che a mio avviso non tocca al giornalista. Ripeto: il giornalista è un filtro. Per dire, tu sei davanti a Sarri? Bene, allora devi fargli le domande che probabilmente vorrebbero fargli i tifosi. Tutto qui. Oppure sono dentro una guerra e ti racconto la guerra. Ti racconto quello che vedo. Credo che questa del formare le coscienze sia una visione straordinariamente romantica del mestiere che non ha nessuna attinenza con la realtà.
Una volta mi colpì molto una sua frase. Era un dopopartita, e in un botta e risposta con Claudio Ranieri, allora allenatore della Roma, lei disse testualmente: “Claudio, io rivendico totalmente il mio diritto di fare polemica”. Può espandere il concetto?
Francamente non ricordo l’episodio, però quest’affermazione la riconosco senz’altro come mia. Non vedo perché non fare polemica. Se si tratta di una polemica gratuita, no. Ritorniamo sempre al discorso del filtro. Nell’ambito di un dopopartita io devo poter dire “hai giocato male, hai sbagliato partita”, perché credo che i tifosi di quella squadra meritino dei chiarimenti dall’allenatore. Non possono sentirsi dire che va tutto bene, che è stata sfortuna o che è colpa dell’arbitro. Magari anche quello, certo. Ma tu hai giocato male, e rivendico il diritto di poterlo dire.
Secondo lei nel giornalismo di oggi si abusa del politically correct? Si esercita ancora questo sacrosanto diritto alla polemica?
Non lo so. Forse hai una visione troppo generalista del giornalista. Ci sono vari ruoli. C’è il cronista, che è quello che va al campo e segue la squadra. E poi c’è l’editorialista, il deputato ai commenti. Cioè, il cronista non è abilitato a fare commenti o a fare, come dire, sceneggiature su una situazione. E poi ci sono gli intervistatori. Ma non si può definire il giornalista tout court. Ci sono vari toni di colore del giornalista. Chi segue le squadre è normale che stia dalla parte delle squadre perché rappresentano il suo lavoro: meglio va la squadra e meglio va il suo lavoro. Per cui c’è una partecipazione dal punto di vista dello sport, del giornalismo sportivo. Chi invece svolge il ruolo di commentatore, o ha dei legami editoriali con quella squadra oppure fa il giornalista al di sopra di tutti, ma deve avere anche un editore che glielo consente. Francamente io ho avuto la fortuna di avere editori che mi hanno permesso di farlo, in cinquant’anni di mestiere.
Abbiamo detto che il ruolo primario del giornalista è quello di raccontare i fatti, ovvero avvenimenti già accaduti o che si stanno verificando in quel momento esatto. In questo scenario che rilevanza hanno i pronostici, visto che riguardano eventi futuri e incerti?
I pronostici non c’entrano nulla con il giornalismo. Rappresentano un desiderio della gente che molte volte un giornalista è costretto a subire. Il giornalista non è mai contento di fare pronostici perché ha una possibilità su tre di indovinarli, quindi ha il 66% di possibilità di sbagliare. Chi glielo fa fare? (ride, ndr). Nessuno mi paga per fare e/o indovinare pronostici. Mi pagano per spiegare. Poi, se il lettore è intelligente, io mi cimento anche volentieri, ma il lettore deve capire che sto giocando.
Anche perché a volte per un pronostico sbagliato si viene marchiati a vita. Si tratta di un gioco che viene preso troppo seriamente, a quanto pare…
E allora bisogna smettere di fare pronostici. Se mi chiedono tra due squadre chi vince io posso dire che vince quella, ma poi non mi devono rompere le scatole se ciò non si verifica, altrimenti non mi interessa, non lo faccio più. Guarda, colgo l’occasione per ribadire una cosa importante, che ho sempre trovato importante in questo lavoro, che ho cominciato quando ancora non esistevano i social, e si tratta di un principio che ho continuato a darmi fino in fondo: mai farsi condizionare da chi ti legge. In genere mai farsi condizionare da nessuno. I social vanno presi come opinioni, ma quando si comincia ad offendere chissenefrega! Che opinioni sono? Non mi interessano.
In questo senso si spiega la sua assenza dai social…
Sì, è una mia scelta. Perché mi sono accorto subito che era pressoché impossibile instaurare un dialogo. In genere gli utenti dei social network sono interessati a cose che a me non interessano. Però chi vuol parlare con me di calcio lo può fare tranquillamente. Ricevo in questo senso tantissime mail a cui rispondo molto volentieri, ma, ecco, il confronto volgare che può basarsi su “tu hai detto, tu hai fatto, ma quel pronostico lì” non mi interessa.
Lei ha avuto il privilegio di stare a strettissimo contatto con Gianni Brera, il padre del giornalismo sportivo italiano. Volevo chiederle se questa grande fortuna talvolta si è trasformata in un boomerang, esponendola all’invidia dei colleghi oppure a paragoni poco lusinghieri.
Non lo so. Non te lo so dire se sia successo questo. So soltanto che Brera per me è stato un riferimento importantissimo. Ma, vedi, Brera aveva un difetto: non era imitabile. Se tu ti proponevi di imitare Brera finivi con l’andare totalmente fuori strada, perché Brera aveva un linguaggio tutto suo. Tutti i migliori sono quelli che inventano un linguaggio. Per esempio, io credo di averlo fatto nel mio mestiere. Ho utilizzato un mio linguaggio, credo di essere riconoscibile quando scrivo. Brera lo era dieci volte di più. Questo lo ha reso solo e isolato. E’ difficile che una persona isolata possa insegnarti qualcosa, puoi soltanto provare a rubargli qualche segreto con gli occhi.
Io ho letto il suo bellissimo libro, uscito nel 2009, “Storia delle idee del calcio”, una vera base per chi intenda approcciarsi al calcio in maniera seria. Poniamo che dovesse scriverne l’aggiornamento, quali idee e quali uomini hanno segnato l’ultimo decennio del calcio?
Il calcio negli ultimi vent’anni è totalmente cambiato. Si è completamente rovesciato. E la ragione è molto semplice. Prima, il calcio, fino al 2000-2003 – quindi nemmeno tantissimo tempo fa –, era clandestino (Sky comincia a dare il campionato proprio nella stagione 2003-04): tu lo vedevi solo allo stadio. Quindi lo vedevano 300.000 persone su 60 milioni. Adesso invece lo vede chiunque. Questo ha cambiato veramente il calcio. Ha cambiato la competenza della gente, che adesso vede e si è fatta competente, ma, allo stesso tempo, ha aumentato il casino. Perché la gente ha avuto il diritto a un parere e 60 milioni di pareri creano solo confusione.
A proposito dell’innalzamento della competenza generale, non crede che un eccesso di competenza da parte degli addetti ai lavori, che a volte danno l’impressione di inscenare delle vere e proprie gare di bravura, possa sortire l’effetto opposto, ovvero allontanare la gente dall’approfondimento.
Sinceramente io non vedo questo. Io leggo tre giornali e guardo poco i siti, mi limito a quelli del Corriere della Sera e di Repubblica. Non vedo questa sorta di accanimento. Vedo, questo sì, un po’ di istrionismo, soprattutto nei giornalisti giovani, ma è un loro diritto, insomma, quello di forzare un po’ i pareri. Siamo in una fase di passaggio, di transito. Bisogna vedere questo approccio dove porterà: vent’anni nella storia non sono niente e noi, ripeto, vediamo calcio solo da quindici anni. Bisogna vedere dove ci porterà questa pancia piena.
Per il resto il calcio è cambiato. Oggi la statura media di un calciatore è 1,70 m, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta eravamo sul metro e sessanta. Il calcio è diventato estremamente fisico. Ciò ripercuotendosi sulla resa tecnica: che non sarà né migliore né peggiore, bensì diversa. Oggi, non a caso, si effettuano dei passaggi fortissimi e il controllo non sembra risentirne. Perché sono cambiati anche i materiali del pallone e delle scarpe. E’ cambiata anche l’attenzione del giocatore che adesso è molto più a contatto con l’attrezzo. Non ti scordare mai, e non farlo dimenticare ai tuoi lettori, che il calcio è un gioco di prestigio. E’ un gioco che si fa con un attrezzo. Ed è chiaro che più a letto vai con il tuo attrezzo e più lo sai gestire.
In questo senso non dobbiamo meravigliarci della diffusione della ricerca del possesso palla, con la maggior parte delle squadre che inizia la costruzione dal basso con il coinvolgimento del portiere e dei difensori?
Io non mi meraviglio di niente, ma non è vero che la maggior parte delle squadre ricerca il possesso palla. Anche perché non è stato mai dimostrato che chi tiene il pallone ha maggiori possibilità di vincere le partite: non esiste nessun dato che conferma la maggiore validità di questo approccio tattico. Per esempio nelle due finali europee, Champions e Europa League, nessuna delle quattro squadre inglesi faceva possesso palla. Certo che poi si tenda a tenere il pallone, ma tutti andavano a 200 all’ora e il gioco era molto verticale.
Non ti scordare che noi in Italia abbiamo recepito il possesso palla come un modo diverso di difenderci. Il possesso palla fine a se stesso non mi dice assolutamente nulla. Ben altra cosa se mi parli di Guardiola. Perché una cosa è se lo fa Guardiola, il possesso palla, e una cosa è se lo faccio io (ride, ndr). La verità è che abbiamo bisogno di regole generali per essere tranquilli. Abbiamo bisogno di leggi perché vivere da soli ci spaventa. La legge ci ripara. E allora vediamo che c’è uno che gioca e vince con il possesso palla e lo scambiamo per legge. Non è vero. Lo fa Guardiola, e probabilmente non lo fa più nemmeno Guardiola, peraltro.
In effetti sia al Bayern che al City il suo gioco si è verticalizzato molto…
Esatto. Perché cambiare è una necessità. Se fai sempre la stessa partita sei come un generale che fa sempre lo stesso tipo di battaglia: diventi prevedibile. E il suo cambiare non è stato dettato dall’esigenza di rispettare le diverse tradizioni dei posti dove ha allenato, ma solo dall’esigenza di vincere.
Nelle sue analisi raramente, per non dire mai, parla dell’arbitro. Volevo un suo parere sulla VAR. Ha migliorato il calcio secondo lei?
La VAR è un aiuto, ma resta un’opinione. Io non lo so cosa ci si aspettasse dalla VAR, ma la VAR è una sequenza di fotogrammi che fai osservare a due arbitri. A me andava bene anche l’arbitro prima. Basta fidarsi dell’arbitro. Se noi non ci fidiamo dell’arbitro avremo voglia a moltiplicare gli arbitri! Se pensiamo che gli arbitri vogliano andarci in tasca non accetteremo mai nulla. La VAR non è scienza, è tecnica. E’ tecnologia, è diverso. Non ha alcun valore scientifico. Non dà risoluzioni. E’ una fotografia che, peraltro, altera la naturale velocità dell’azione avvenuta poco prima.
L’ultima domanda è di natura per certi aspetti personale. Lei ha sempre detto che uno dei suoi obiettivi nella vita è quello di studiare e/o imparare una cosa nuova al giorno. Volevo sapere appunto cosa ha imparato oggi o su cosa si sta concentrando in questi giorni.
Quello riguarda il metodo. Io sono un razionalista e secondo me se tu non hai un metodo non vai da nessuna parte. Allora tante volte un sacco di ragazzi come te mi chiedevano dei consigli e io dicevo loro che il piccolo segreto è quello di imparare una cosa nuova al giorno. Qualunque cosa. Prima di andare a dormire non hai imparato niente? Capita. E allora prendi un dizionario, un’enciclopedia, cerca una parola qualsiasi e approfondisci quel concetto. Io queste cose me le curo di notte perché ho la fortuna di poter dormire la mattina e il mio svago, il mio studio comincia tra la mezzanotte e le quattro di notte. Per cui chiamami domani e ti dirò cosa ho imparato stanotte.
Bar Sport, Episodio II. Manifestazioni di giubilo ed entusiasmo della grande narrazione sportiva! Sotto l'albero di Natale potremmo avere ancora un campionato aperto!