Carriere iniziate e finite all'Estudiantes, e condite da sfide leggendarie.
Recentemente indagavamo sulla complessità del rapporto tra padre e figlio, soprattutto quando il padre occupa un posto rilevante nella storia di un determinato sport – se non addirittura un posto leggendario. Tra responsabilità insostenibili, promesse mancate e talenti forzati ne è venuto fuori un quadro variegato in cui è emerso che, salvo rari casi, è piuttosto difficile per uno sportivo emulare le gesta del celebre genitore.
Non solo: talvolta anche un palmarès più ricco non è bastato al “figlio di” per superare l’esame e quindi svincolarsi dal paragone: emblematico l’esempio di Jacques Villeneuve, che a differenza di papà Gilles – in carriera per il pupillo di Enzo Ferrari solo sei gare vinte e nessun titolo –può vantare un Mondiale di F1 (1997). Eppure gli addetti ai lavori e gli appassionati sembrano non essersene mai accorti, relegando al più questo successo iridato a mero dato statistico, poca cosa rispetto alle emozioni (ancora vive) che seppe regalare a suo tempo l’Aviatore.
Può capitare, però, di abbandonare la logica del confronto individuale e abbracciare una prospettiva che sia a tutti gli effetti “familiare”. È quello che succede quando ci si imbatte nella storia dei Verón. Il contributo dato al calcio da Juan Sebastián è sì legato a quello di papà Juan Ramón, ma l’emulazione non c’entra niente. E non solo perché in campo ricoprivano ruoli diversi (attaccante il padre e centrocampista il figlio, mancino il primo e destro il secondo), ma perché le loro (luminose) carriere sono così complementari da resistere a ogni tentativo di disgiunzione portato avanti da chi vorrebbe, per forza di cose, eleggere un “più grande”.
L’ascesa al rango di leggenda comporta l’acquisizione congiunta di concetti ben precisi: rispetto della tradizione, contaminazione, custodia della memoria e circolarità. Obiettivi perseguibili lasciandosi guidare da coordinate altrettanto precise: preservare la propria identità, frequentare altre leggende (compagni o avversari che siano), marcare territori stranieri, tornare.
Il mito calcistico della famiglia Verón inizia a prendere forma all’inizio degli anni Sessanta nella propria terra d’origine, La Plata, capoluogo della provincia di Buenos Aires situato a 60 km dalla capitale. Nel 1962 Juan Ramón, soprannominato La Bruja (letteralmente “La strega”) probabilmente per gli infelici lineamenti del viso, esordisce nella massima serie del campionato argentino con la maglia della squadra della sua città, l’Estudiantes de la Plata.
Nelle prime stagioni in forza ai Los Pincharratas (“I pugnalatori di topi”), appellativo che evoca le origini del club (1905) per opera di studenti universitari di Medicina dediti agli esperimenti sui roditori, il diciottenne Juan Ramón non fatica a mostrare il suo talento. Tuttavia la squadra, giovane e promettente, è un cantiere aperto non ancora in grado di lottare per traguardi importanti, tutti appannaggio delle “big” di Buenos Aires: i piazzamenti in classifica risentono della fase di costruzione, e sono tutt’altro che eccezionali.
La musica inizia a cambiare nel 1965, con l’avvento di Osvaldo Zubeldía, uno dei tecnici più rivoluzionari della storia del calcio, non solo di quello argentino. Zubeldía individua sin da subito in Juan Ramón Verón il suo referente in campo, l’uomo attorno al quale costruire un futuro prossimo vincente, tanto da procedere a una lusinghiera investitura pubblica del numero 11:
“Per noi è quello che Pelé è per il Santos”.
Il sodalizio tra Zubeldía e Verón, sommato agli innesti mirati che rispondono ai nomi di Carlos Bilardo, Marcos Conigliaro e Juan Echecopar, rappresenta la base su cui edificare i successi dell’Estudiantes, che non tardano ad arrivare. Nel 1967 la conquista del torneo Metropolitano, primo titolo dopo la svolta professionistica avvenuta nel 1931: affermazione molto significativa in quanto interrompe un dominio ultratrentennale ripartito tra le “cinque grandi” (Boca Juniors, River Plate, San Lorenzo, Racing Club e Independiente).
Ma i metodi innovativi di Zubeldía, che introduce l’etica del lavoro, l’importanza di avere un’organizzazione di gioco, lo sfruttamento scientifico delle palle inattive e tanta tanta furbizia, si rivelano efficaci anche in ambito internazionale, contribuendo a riempire la bacheca dell’Estudiantes e ad accendere la stella di Verón. Dal ’68 al ’70 la formazione platense riesce a vincere tre Coppe Libertadores consecutive, la Coppa Intercontinentale (quella del ’68 contro il Man Utd, perdendo le successive due con Milan e Feyenoord) e la Coppa Interamericana (piegando i messicani del Tuluca nel 1968).
In questo triennio d’oro, Verón è spesso decisivo a suon di reti, non sfigurando affatto al cospetto di alcuni tra i giocatori più forti di tutti i tempi sfidati in giro per il mondo. La prima Copa Libertadores della serie vede Verón autore di una tripletta spalmata sulle tre finali – andata, ritorno e bella – giocate contro i brasiliani del Palmeiras: La Bruja piazza il proprio sigillo nel 2-1 (incontro disputato a La Plata), nell’1-3 (San Paolo) e nel 2-0 definitivo (Montevideo) che consegna l’ambito trofeo all’Estudiantes.
Qualche mese più tardi, nell’ottobre del 1968, la soddisfazione per la banda di Zubeldía sarà addirittura Intercontinentale: a farne le spese il Manchester United, fresco vincitore della Coppa dei Campioni che poteva contare su fuoriclasse assoluti quali Bobby Charlton e George Best. La reputazione e i favori del pronostico non bastano infatti ai Diavoli Rossi per spuntarla contro Verón e compagni: 1-0 (Conigliaro) alla Bombonera di Buenos Aires, e 1-1 all’Old Trafford, dove è proprio un colpo di testa di Juan Ramón a gelare il Teatro dei Sogni dopo 7’ e a indirizzare match e coppa verso La Plata.
L’anno seguente l’Estudiantes, essendo nuovamente campione del Sud America (in finale Libertadores Nacional sconfitto 1-0 a Montevideo e 2-0 in casa), si gioca ancora una volta il titolo di campione del mondo. Stavolta però l’esito è negativo sotto tutti i punti di vista: la vittoria per 2-1 nel ritorno non consente agli argentini di ribaltare lo 0-3 incassato a San Siro contro il Milan di Pozzo due settimane prima. Ma soprattutto la gara di Buenos Aires (si giocò alla Bombonera) passerà alla storia come uno degli spettacoli più vergognosi mai visti su un campo di calcio.
Quella furbizia cara a Zubeldía degenerò in violenza allo stato puro, e a provarlo sulla propria pelle fu il milanista Nestor Combin, oggetto di una vera e propria caccia all’uomo che gli causò fratture al naso e allo zigomo. Il giocatore, argentino naturalizzato francese, pagò col sangue non solo il gol siglato nella sfida d’andata ma soprattutto il “rifiuto” della nazionalità argentina che lo portò anche a disertare il servizio militare. Al termine della partita, peraltro, le autorità argentine arrestarono Combin intimandogli di rispondere alla chiamata alle armi, e solo l’intervento della diplomazia italiana fu in grado di sbrogliare la situazione.
Insomma, sul piano extra-sportivo una pagina da cancellare, che tuttavia ebbe l’aspetto positivo di far conoscere a Verón una leggenda del calcio italiano e mondiale: quel Gianni Rivera, protagonista di un’annata strepitosa, che di lì a un paio di mesi avrebbe suggellato con la conquista del meritato Pallone d’Oro (primo calciatore italiano a riuscirci). Ma il dicembre del ’69 non fu dolce solo per il Golden Boy, e anche Verón trovò la gloria necessaria per dimenticare la disfatta tecnica e morale della Bombonera.
La Bruja, inorgoglito dalle parole spese sul suo conto da Zubeldía, volle dimostrare al suo allenatore che non si sbagliava a considerarlo l’omologo di Pelé per l’Estudiantes. E allora pensò bene di rifilare una doppietta al Santos, una rete di testa e una su rigore, in una notte magica allo stadio Jorge Luis Hirschi. La partita, terminata 3-1, rientrava nell’ambito della Supercoppa Intercontinentale, un torneo a gironi che si giocò in sole due edizioni e che metteva di fronte le vincitrici della Coppa Intercontinentale.
Alla fine a trionfare fu il Penarol; ma per i tifosi dell’Estudiantes, e soprattutto per Verón, battere O Rey sul campo nell’unica volta in cui si erano affrontati valeva quanto un trofeo, tanto più che lo stesso Penarol fu liquidato un anno più tardi (1970) nella terza finale consecutiva di Libertadores (1-0 a La Plata; 0-0 a Montevideo).
Al successo continentale ancora una volta non segue quello intercontinentale: il titolo del 1970 va al Feyenoord di Happel e Van Hanegem. Verón sigla d’opportunismo il momentaneo 2-0 del primo round a Buenos Aires, ma sarà proprio il numero 10 olandese a fissare il punteggio sul 2-2; a Rotterdam una rete di Van Daele chiude definitivamente la pratica.
A chiudersi in realtà è il (fantastico) ciclo di Zubeldía, che a fine anno lascia la panchina dell’Estudiantes. Gli succederà Carlos Bilardo, diventato nel frattempo allenatore. Sotto la guida del Narigon la squadra, ormai logora, riesce ad arrivare comunque per la quarta volta consecutiva in finale di Copa Libertadores, perdendo all’ultimo atto con il Nacional Montevideo, che la spunta nella “bella” 2-0, dopo che i precedenti incontri erano terminati con una vittoria a testa per 1-0.
Verón decide allora di cambiare aria e nel 1972 vola dall’altra parte del mondo, in Grecia, dove ad attenderlo c’è il Panathinaikos allenato da Ferenc Puskas, l’ennesima leggenda incontrata dalla Bruja. Una formazione molto competitiva, quella greca, che anche grazie alla stella Antonis Antoniadis l’anno prima era approdata addirittura in finale di Coppa dei Campioni piegandosi soltanto davanti all’Ajax di Johan Cruijff. Sebbene arrivato a campionato in corso, Verón non tarda ad ambientarsi nel contesto ellenico: gioca, segna e aiuta il Trifoglio a vincere il campionato.
Dopo un terzo e un secondo posto, rispettivamente nel ’73 e nel ’74, torna all’Estudiantes per giocare la stagione del ’75 e segnare 9 gol in 43 apparizioni, per poi concedersi una doppia esperienza nella prima divisione colombiana: trascina l’Atletico Junior alla vittoria del primo campionato della sua storia (1976/’77), mentre al Cucuta Deportivo (1978/’79) non alza nessun trofeo, ma si mette in evidenza totalizzando 21 reti.
In tutto questo girovagare e giunto all’età di 36 anni, Verón capisce che è il momento di ritornare definitivamente a casa, all’Estudiantes (1980/’81), per chiudere la sua straordinaria carriera. Giusto in tempo per incrociare, da avversario, il giovane Diego Armando Maradona – a parte Cruijff ha incontrato tutti i grandissimi –, nelle sfide con Argentinos Juniors prima e il Boca Juniors poi.
Anche La Brujita (“La streghetta”) esordisce a diciotto anni con la maglia della squadra del cuore, l’Estudiantes, prima di andare a farsi le ossa nel Boca Juniors.
Proprio una sfida tra Estudiantes e Boca Juniors giocata a La Plata il 14 ottobre 1981 rappresenta per Juan Sebastián l’ultimo ricordo legato al padre calciatore: a soli sei anni era in tribuna a vedere Juan Ramón affrontare Maradona. Finisce 3-1 per il Boca Juniors e Diego sigla anche una rete su punizione. Il piccolo Verón, che pure stava muovendo i primi passi nelle giovanili del Pincha, non poteva certo immaginare che quindici anni più tardi sarebbe stato compagno di squadra del Pibe de Oro.
Anche La Brujita (“La streghetta”) esordisce a diciotto anni con la maglia della squadra del cuore, ma nel 1993-’94 l’Estudiantes retrocede in seconda divisione. Tuttavia il giovane Juan Sebastián l’anno seguente gioca con continuità, 38 partite e ben 5 reti (bottino di tutto rispetto per un centrocampista), e contribuisce in maniera determinante alla vittoria della Primera B Nacional e quindi alla pronta risalita nella massima serie argentina.
A quel punto ci si rende conto che il talento di Verón è troppo ingombrante per la realtà dei Los Pincharratas, ben lontana dai fasti degli anni Sessanta: la scelta migliore per tutti è la separazione, ma una separazione figlia di un amore reciproco mai messo in dubbio. Ecco dunque che Verón, nel marzo del 1996, per anticiparsi nella frequentazione delle leggende va a farsi le ossa al Boca Juniors.
Un’esperienza, quella con gli Xeneizes, altamente formativa, in quanto porta Verón a stretto contatto con mostri sacri come Maradona e Caniggia. La stagione sarà avara di successi, ma non di prestazioni di livello. Verón attira così l’attenzione della Sampdoria, e il trasferimento dai genovesi a Genova diventa quasi naturale nell’agosto del 1996.
Per il giovane figlio d’arte di La Plata il passaggio in Europa, dove militano i migliori giocatori del mondo, argentini compresi, si rende necessario per raggiungere l’obiettivo della conservazione della memoria. Intesa sia nel senso di ribadire con forza concetti già espressi, sia per saldare dei conti rimasti in sospeso: la famiglia Verón è ancora qui a giocarsela con tutti, la famiglia Verón non dimentica.
Nella celebre finale di Mosca contro l’Olympique Marsiglia, vinta dal Parma con un netto 3-0, Verón salda il primo conto familiare.
Agli ordini di Sven Goran Eriksson e sotto l’ala protettiva di Roberto Mancini (a proposito di stelle), Verón verifica che il suo stile di gioco è valido anche nel difficile campionato italiano: con i suoi lanci ridisegna le dimensioni del terreno di gioco a seconda delle esigenze del momento. Dopo due stagioni blucerchiate contrassegnate dall’alto rendimento che gli fanno guadagnare anche la convocazione per Francia ’98, i tempi sono maturi per alzare l’asticella. Nella stagione passata alla storia come quella delle “Sette Sorelle”, l’ambizioso Parma di Tanzi sceglie l’argentino per contendere lo scudetto alle grandi. Il tricolore andrà al Milan, ma i ducali si aggiudicheranno Coppa Italia e Coppa Uefa.
Proprio nella celebre finale di Mosca contro l’Olympique Marsiglia, vinta dagli uomini di Malesani con un netto 3-0, Verón salda il primo conto familiare. La squadra francese è allenata da Rolland Courbis, che nel 1974 faceva parte della rosa con cui l’Olympiakos vinse lo scudetto greco ai danni del Panathinaikos di Juan Ramón Verón. Ebbene Sebastián “vendica” il padre con una grande prestazione: sulle tre reti gialloblù due sono propiziate da suoi tocchi, di cui il primo di testa, omaggiando un fondamentale tecnico che il padre non disdegnava.
Va ancora meglio l’anno seguente dove alla Lazio di Cragnotti, che per averlo sborsa 60 miliardi di lire, ritrova Eriksson e Mancini. Stavolta le vittime della memoria lunga sono sia il Manchester United campione d’Europa, sia il Milan campione d’Italia in carica. La partita giocata il 27 agosto a Montecarlo conferma l’usanza familiare di trovarsi a proprio agio contro i Red Devils: 31 anni dopo il magico 1968, un altro Verón stende gli inglesi, e con una rete di Salas la Lazio conquista la Supercoppa Europea 1999.
Passa poco più di un mese e Il 3 ottobre 1999 all’Olimpico va in scena una delle partite più belle della storia della Serie A: la simultanea presenza in campo di campioni tra cui Nesta, Simeone, Salas, Maldini, Shevchenko, Weah produce un iconico 4-4. Siccome 30 anni prima il Milan aveva vinto l’Intercontinentale contro l’Estudiantes del padre, Verón decide di essere dominante come non mai: gol, legni colpiti, assist.
Al di là del pareggio, che comunque premiò anche un ottimo Milan, Sebastián scelse quell’occasione per dimostrare alla Lazio che sarebbe stato lui l’uomo in più. E con le sue 8 reti finali fu di parola, perché a fine stagione i biancocelesti vinceranno il tricolore – a distanza di ventisei anni da quello storico conquistato da Maestrelli – scucendolo di fatto dalle maglie rossonere.
Ormai Veron è una stella mondiale unanimemente rinosciuta. Diventa un punto fisso dellaNazionale argentina (in totale tre Mondiali disputati, 72 presenze e 9 gol) andando a regolare un altro conto: papà Juan Ramon, nonostante fosse uno dei giocatori più forti della sua generazione, non mise insieme che 4 misere presenze (tutte amichevoli) con la Seleccion, pagando a caro prezzo la disorganizzazione che caratterizzava la Federazione dell’epoca e l’astio dei vertici nei confronti di Zubeldìa. Un periodo complessivamente buio per l’Albiceleste che, nel ’70, non si qualificò nemmeno per il Mondiale messicano.
Nel 2001 Sebastián lascia la Lazio per approdare ai “rivali” del Manchester United per 80 miliardi di lire. Ma il passaggio dall’altro lato della barricata, nonostante ad attenderlo ci sia un totem come Sir Alex Ferguson, comporta il venir meno di quella motivazione addizionale garantita dalle sfide di famiglia, traducendosi sul piano personale in un periodo poco esaltante. Per non parlare della sua esperienza al Chelsea (2003/’04), dove l’argentino fu un autentico flop.
Nel 2006 fa ritorno all’amato Estudiantes dove incrocia Diego Simeone che, diventato da poco allenatore, gli costruisce attorno la squadra: insieme vincono il torneo Apertura, eguagliando il record di vittorie consecutive (10) che apparteneva all’Estudiantes di Zubeldía
Verón non ha nemmeno 30 anni eppure la sua carriera sembra aver virato di colpo verso il basso. Ci pensa però l’amico Roberto Mancini a risollevargli il morale, volendolo con sé nel biennio interista 2004-06, per formare il trio di centrocampo con Zanetti e Cambiasso. Protetto dal clan argentino, La Brujita risponde positivamente ai nuovi stimoli e risulta determinante in più occasioni, in particolare per la conquista della Supercoppa Italiana del 2005 contro la Juventus di Ibrahimovic, decisa da un suo gol nei supplementari. Il bottino con i nerazzurri alla fine conterà anche due Coppe Italia e lo Scudetto assegnato in seguito ai fatti di Calciopoli.
Recuperata la dimensione di giocatore importante, Verón si sente finalmente pronto per andare a riprendere un discorso che aveva dovuto interrompere dieci anni prima: nel 2006 fa ritorno all’amato Estudiantes. A La Plata incrocia sul suo cammino un altro amico, quel Diego Simeone che mandò in gol a Torino nella sfida-scudetto del 2000 contro la Juventus. Per ricambiare il favore, il Cholo, diventato da poco allenatore, gli costruisce attorno la squadra e insieme vincono il torneo Apertura, eguagliando il record di vittorie consecutive (10) che apparteneva all’Estudiantes di Zubeldía, e battendo il Boca Juniors 2-1 in uno storico spareggio.
Così com’era capitato ai tempi Juan Ramón Verón, la vittoria del campionato nazionale fa da trampolino per il salto di qualità a livello internazionale. Dopo aver perso la finale di Coppa Sudamericana nel 2008 contro l’International, l’Estudiantes (con Sabella in panchina) centra la quarta Coppa Libertadores della sua storia 39 anni dopo l’ultima volta: nella sfida decisiva di Belo Horizonte contro il Cruzeiro – la gara di andata era terminata 0-0 – Verón è strepitoso.
Galvanizzato dalla prospettiva di rinsaldare l’ennesima tradizione di famiglia, esibisce una voglia di vincere mista a cattiveria agonistica forse mai vista prima: inventa il passaggio chiave che mette Cellay nelle condizioni di servire Gaston Fernandez per l’1-1, e dipinge il corner millimetrico con cui pesca direttamente Mauro Boselli per completare la rimonta (2-1).
L’undicesimo trofeo, l’undicesima stella cucita sulla maglia dell’Estudiantes, sempre il numero 11 nel destino, che ormai assurge a simbolo della complementarietà: due numeri 1. Dopo essere partito da La Plata nel 1962 e aver completato per due volte il giro del mondo tra vittorie, sconfitte e incontri leggendari, attraversando diverse epoche della storia del calcio contribuendo a influenzarle, il monolite sferico per metà Juan Ramón e metà Juan Sebastián esaurisce così la sua inerzia tornando alle origini e scolpendo il proprio nome nella memoria collettiva. In attesa, magari, che un altro Verón ricominci il viaggio.