Calcio
03 Giugno 2025

Il trattamento del silenzio

Quale destino per i Friedkin con Gasperini?

I media nazionali hanno brancolato nel buio per mesi, quelli romani si sono espressi addirittura sulla liceità o meno della scelta, da parte della proprietà americana dell’AS Roma, di non comunicare niente di niente sul nuovo allenatore fino alla sua ufficialità. Probabilmente, non è stato inteso che la famiglia Friedkin non solo non ha voglia di parlare a mezzo stampa – ma proprio non ammette, nel credo imprenditoriale, i rapporti coi media.

La storia della loro presidenza, iniziata il 10 settembre 2020, tra risultati ondivaghi, mostra una costante: zero dichiarazioni dirette (e pochissime eterodirette).

Il trattamento del silenzio riservato ai tifosi romanisti è stato vissuto dalla piazza come una punizione senza peccato originale – ma invece che stimolare un ragionamento sul perché e sul per come, o addirittura un’analisi di deontologia professionale se non, magari, un discorso sulla proprietà materiale e su quella immateriale delle squadre di calcio, ha semplicemente aperto il campo alle interpretazioni più fantasiose. Chiunque, a proposito di Roma, ora ha fonti interne, capta indiscrezioni, svela retroscena. Una sorta di liberi tutti che, in assenza totale di smentite da viale Tolstoj (o Trigoria o da Londra o da Houston, non si sa bene), ha aperto le gabbie.

Ma a un osservatore attento, forse, non sarebbe sfuggito un particolare. In realtà, un’unica smentita da parte della società c’è stata, solitaria nel marasma di domande, richieste, interrogazioni su chi avrebbe preso il posto di Claudio Ranieri. Con un livello epocale di bluff, la Roma ha ingaggiato l’unico tecnico il cui attuale allenatore (e futuro consulente tecnico della famiglia Friedkin) aveva espressamente negato come possibile suo sostituto. Nella conferenza stampa del 27 marzo, una delle tante ricolme di domande sul futuro romanista e a poche ore dall’indiscrezione di Gasperini futuro allenatore della Roma, Ranieri aveva sentenziato: “Non sarà lui l’allenatore della Roma”, per poi proseguire, qualche settimana più tardi, dicendo che “l’allenatore c’è già ma deciderà il presidente quando dirlo”. Un doppio inganno, visto che il nuovo mister, invece, è proprio Gian Piero Gasperini con cui però no, proprio no, non era affatto già chiuso l’accordo. Il capolavoro, ai limiti del diabolico, è compiuto.

E a proposito di spifferi, nei mesi scorsi è stato detto tutto e il suo contrario. Riavvolgendo a caso il nastro, si è parlato di Filippo Inzaghi, visto che l’aereo dei Friedkin era in Toscana (Gazzetta dello Sport). Prima, quando invece era atterrato a Salisburgo, si era scatenata l’ipnosi Jürgen Klopp, suggellata dalla notizia di una firma, con tanto di data e ora precisa, “domenica 18 maggio alle 22.57”, del tedesco (La Stampa). Pochi giorni fa, sempre a proposito di rotte nei cieli, la sosta pisana del jet americano aveva fatto pensare qualcuno che la pista Gasperini, che pur prendeva consistenza finale, fosse in realtà una polpetta avvelenata mediatica e che, in realtà, tutte le attenzioni fossero concentrate su Massimiliano Allegri; d’altronde, il tecnico ora destinato al Milan, era addirittura venuto a vedere gli Internazionali d’Italia che incredibilmente si giocano a Roma – una prova inconfutabile del suo prossimo approdo nella capitale.



Mentre a marzo in pole c’era Maurizio Sarri (sempre Gazzetta dello Sport), pochi giorni fa, viceversa, pareva tutto fatto per Cesc Fabregas: “L’ex centrocampista di Arsenal e Barcellona ha già dato il suo ‘sì’ all’offerta giallorossa. È lui il prescelto dalla nuova dirigenza” assicuravano (Repubblica). Altri dichiaravano già organizzato un incontro con Edin Terzić, anche qui sbilanciandosi con la data: “tra giovedì 29 e venerdì 30 maggio” (Corriere della Sera); altri strizzavano l’occhio a Roberto Mancini (Sky) – ma visto che la classe non è acqua e soprattutto che le certezze poi smentite iniziavano a essere una montagna lacrimosa, Paolo Di Canio, con grande paraculaggine, si mostrava saggiamente possibilista:

“Occhio: se Fabregas non arriva, se non arriva qualcun altro, occhio a qualcuno che vive a Roma. Occhio a Roberto Mancini”.

Mi soffermo sulle parole perché siamo all’esempio di assenza totale di notizia, alla possibilità tramutata in probabilità, al flatus vocis ai limiti della flatulenza: se non arriva uno e non arrivano anche altri (plurale, quindi potenzialmente tutti), magari arriva un altro, nel caso l’ex tecnico della Nazionale. Inappuntabile, inattaccabile, un oracolo a tutti gli effetti. All’inizio di maggio, invece, tra i mezzi di informazione romani, c’era chi era certo, forte di indiscrezioni interne, che Francesco Farioli sarebbe stato l’allenatore della Roma (RadioRadio); a rincarare la dose, su scala nazionale, qualcuno ragionava già su come avrebbe giocato la sua Roma (CalcioMercato.com); pochi giorni dopo, sulla stessa testata, si garantiva che la prima scelta per la panchina fosse Vincenzo Montella.



Nessuno è stato esente dall’arte del vaticinio – però qualcuno ha esagerato, immaginando, a distanza di pochi giorni, certezze contrastanti. Ma se il secondo giornale d’Italia parlava, prima del tecnico del Como, di uno Stefano Pioli a un passo dalla firma (Repubblica) – la cosa davvero interessante è che la mossa della Roma veniva data per certa a seguito del rifiuto di… Gasperini: “i contatti con l’allenatore dell’Atalanta sono stati continui e frenetici ma dopo una lunga riflessione il tecnico di Grugliasco ha declinato l’offerta”. Le fantasie, in realtà, sono state innumerevoli. Una lista parziale: Raffaele Palladino, Adi Hütter, Patrick Vieira, Antonio Conte, Nuno Espírito Santos, Thiago Motta, Graham Potter, Vincenzo Italiano, Roberto De Zerbi, Carlo Ancelotti, Davide Ancelotti, e, straordinario, non venivano esclusi i ritorni di Daniele De Rossi o José Mourinho (d’altronde quest’ultimo era stato addirittura avvistato a Fiumicino).

Ma la sagra dello spiffero non si è fermata neanche ad accordo praticamente raggiunto e, oramai, di pubblico dominio. La giornata del 30 (sempre quella dell’incontro dei Friedkin con Terzic, a sentire il CorSera), è iniziata con un fulmine a ciel sereno: Gasperini, che nella notte era quasi sicuramente romanista, non era più sicurissimo di volersi accasare dai giallorossi (Gazzetta dello Sport), anche perché la Juventus stava facendo un tentativo molto serio per strapparlo alla Roma (Sport Mediaset); il blitz bianconero avrebbe portato certamente a ritardi a causa di nuove riflessioni che sarebbero durate per giorni (Sky) e, in più, la moglie del tecnico stava spingendo per rimanere, invece, a Bergamo (Messaggero).

All’ora di pranzo c’erano più possibilità di vederlo alla Continassa (Gazzetta dello Sport) ma all’ora del caffè c’era una sola certezza: per qualunque decisione definitiva ci sarebbero volute altre 36-48 ore (Sky). Poi, durante l’aperitivo, così de botto senza senso, tutto fatto: firma imminente con la Roma (Sky), triennale da 6 milioni (Calciomercato.it), già tutto comunicato all’Atalanta (Sportitalia), quasi tempo di comunicati (Messaggero) – fino all’ormai classico here we go di Fabrizio Romano, in tempo per la cena. Una giornata in cui qualcuno (la Roma?, l’Atalanta?, la Juventus?) ha vinto – ma in cui certamente ha perso il giornalismo. Una delle tante paginacce fatte di approssimazione e fonti non controllate.



La banderuola dell’animo romanista ha girato all’impazzata, senza pietà, per dirla alla Montale. Succede questo a seguire il vento – che poi si crede a tutto. Ma il vento, di per sé, non ha odore – dipende da ciò che trasporta, da ciò che incontra o, peggio, da ciò che viene messo sul suo cammino. E così accade che di Gian Piero Gasperini siamo tutti convinti che abbia bisogno di tempo, tanto tempo, per dimostrare il suo valore, far recepire i suoi dettami tattici, permeare nella testa e nelle gambe dei suoi giocatori. Per questo il tifo romanista viene descritto come diviso: va bene Gasp – ma chissà se nella Città Eterna, che da ambo le sponde soffre di schizofrenia sportiva, saranno in grado di attendere la sua rivoluzione.

Invece, a leggere i suoi numeri nei nove anni a Bergamo, la realtà è un’altra: 4° posto alla prima stagione, poi, in totale, quattro volte al 3° posto, un’altra al 4°, una a 5°, una al 7° e una all’8° (unica volta in cui ha fallito la qualificazione europea).

In bacheca l’Europa League 2023/2024 e tre finali di Coppa Italia perse. Plusvalenze, crescita del marchio e apertura di prospettive per un club che prima del suo novennio non faceva molto altro che ballonzolare tra A e B. In più, l’allenatore di Grugliasco, al di là delle questioni puramente tecniche, ha scelto la strada più difficile: ha lasciato una piazza dove era ammirato, adorato, venerato, in cui era il grande capo, in cui sarebbe potuto rimanere a vita a decorare i suoi mezzi busti in giro per Bergamo alta, in cui aveva comprato una casa che la moglie stava finendo di arredare. Una piazza che lo pregava di rimanere e che lo ha visto andare via per accasarsi nella casa di acerrimi rivali; rivali che, per altro, lo hanno sanamente detestato per anni. Insomma: una dimostrazione di coraggio poco comune che, come racconta la storia dell’ultimo allenatore scudettato a Roma, Fabio Capello, solitamente porta risultati.



Quindi, tutto bello? No, perché i dati e i fatti si leggono tutti, senza paraculaggini. Se da un lato c’è Gasperini, ottimo allenatore, protetto, magari, da un Ranieri in versione dirigente – dall’altro c’è il direttore sportivo e la proprietà.

Il primo, Florent Ghisolfi, è un dirigente giovane (classe 1985), ha un passato da mediocre giocatore, una minuscola parentesi poco interessante da allenatore e qualche anno da direttore sportivo del Lens. Al Nizza dal 2022 al 2024, ha speso molto più di quanto ha fatto incassare (83 milioni contro 50 il primo anno, 52 milioni contro 18 il secondo), investendo ingenti somme per Terem Moffi, centravanti da una decina di gol all’anno (25 milioni) e Jeremie Boga, esterno offensivo ex Sassuolo e Atalanta, poco incisivo anche in Francia (18 milioni).

Un anno di spese discutibili a seguito di un anno altrettanto controverso: Sofian Diop, esterno offensivo, con all’attivo 4 gol in 3 anni (altri 22 milioni), e Gaëtan Laborde, punta centrale da 29 gol in 88 partite (e 15 milioni) in Francia; poi altri 13 milioni per Viti dall’Empoli e quasi 25 in totale per la coppia di mediani Beka Beka e Ndayishimiye. Roba forte. Parliamoci chiaro: all’arrivo nella capitale non aveva un gran pedigree. L’annata a Roma pare aver confermato le premesse. La lista sarebbe lunga ma è bene ricordare, su tutto, due fatti: il disastroso acquisto di Enzo Le Fée, preso per 23 milioni dal Rennes (ma rivenduto al Sunderland) e l’ancora incerta situazione contrattuale di Mile Svilar, fresco di titolo di miglior portiere della Serie A 2024/2025.



Peggiori di qualunque trattativa sbagliata, però, per atteggiamento e impostazione mentale, le dichiarazioni di fine aprile dello stesso Ghisolfi: “Voglio dimostrare di meritare la Roma, altrimenti andrò via”. Parole che dimostrano una confusione di fondo, un’incertezza congenita del personaggio e che certificano la mancanza di nerbo societario (perché, nel caso, dovrebbe essere la proprietà a mandare via un direttore sportivo poco efficace) – testimoniata dalla mancanza di un amministratore delegato, ruolo vacante dal settembre 2024.

Ma alla proprietà, secondo punto del lato negativo della situazione romanista, non sembra mancare solo il nerbo. La famiglia Friedkin (Dan, padre e presidente, Ryan, figlio e vicepresidente) ha ottenuto qualche buon risultato. Sportivamente, la vittoria della Conference League è un’enormità per una squadra che da sessant’anni non vinceva in Europa, ma per il resto è inutile menarsela con lunghe liste di ipotetici successi che comprendono il risanamento di bilancio, il progetto dello stadio di proprietà, l’aumento dei ricavi, l’abbassamento del monte ingaggi societario. Non c’è cosa peggiore dell’elogio della mediocrità e chiunque si attacchi al fatto che sono stati raggiunti buoni frutti nelle aree che ho appena elencato — sguazza nello stagno della normalità credendo di immergersi nella barriera corallina.

Mi spiego: nel 2025, col calcio italiano sì in crisi, ma all’interno del quale esistono esempi chiari, limpidi, riconoscibilissimi di buona gestione in specifici settori – ci mancherebbe altro che una presidenza statunitense con grandi capacità economiche (7,6 miliardi di dollari di patrimonio e mani in pasta, bene, nel mercato delle automobili, degli aerei e del cinema) non lavori bene su bilancio, infrastrutture, ricavi e costi.

Non bisogna fare della normalità un vanto, è come applaudire al pilota dell’aereo perché è riuscito ad atterrare. Quello è il suo lavoro e visto che non ci spelliamo le mani per un cassiere che ci dà il resto giusto, per un libraio che ci porta il testo richiesto, per un macellaio che ci taglia bene il prosciutto — non dobbiamo applaudire i Friedkin per aver gestito bene i conti dell’AS Roma. A maggior ragione se ci fermiamo a riflettere un momento sul fatto che quella è una società privata e che la sua stabilità finanziaria è primariamente un interesse di chi ne è proprietario; in questo, Dan e Ryan stanno solo facendo, legittimamente, i loro interessi.

Il problema è che nel calcio esistono due tipi di risultati da conseguire: quello imprenditoriale e quello sportivo – e che le due cose non sempre coincidono. La Roma è in mezzo al guado, sembra non sapere dove andare. Eppure, nel panorama nazionale, esistono realtà che stanno andando nella giusta direzione – e che, drammaticamente, responsabilizzano chi, invece, pare non riuscirci (oltre alla Roma, si vedano Lazio, Milan e Juventus): l’Atalanta, appunto, che vince in Europa, la Fiorentina che ci va vicinissima, il Bologna che trionfa in Coppa Italia e il Napoli in Campionato – inchiodano le altre sorelle ai loro oneri. Sono la dimostrazione che, alla Gene Wilder, si può fare! Per questo, al di là di una visione socialista o meno del calcio, le vittorie degli (ex) underdog dovrebbero fare felici chi vuole un calcio davvero meritocratico, pur sapendolo un gioco in buona parte immerso nell’alea. Ma questo è davvero un altro discorso – per ora rimane la domanda delle domande: i Friedkin, con Gasperini e Ranieri ma anche con Ghisolfi e Mister/Miss X come ceo, ce la faranno?

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