Un allenatore molto più bravo di altri spinti dalla stampa.
Bisognerebbe chiedere scusa a Vincenzo Italiano. Rettifico: io devo chiedere scusa a Vincenzo Italiano. Col mio modo affrettato di giudicare, definire, di incasellare con noncurante ferocia tutto in compartimenti stagni – l’avevo inserito, a torto, nella numerosa schiera degli allenatori post-moderni. Quelli che hanno sostituito le meta-narrazioni, appunto, moderne (Illuminismo, Idealismo, Marxismo [1] – che calcisticamente si dispiegavano in Arrigo Sacchi, Enzo Bearzot, Nereo Rocco) con universi simbolici fluttuanti, vaghi, liquidi: costruzione dal basso, alternanza dei portieri, ali con piede invertito, assenza di trequartista, braccetti di difesa…
Quelli, per essere ancora più chiari, tutti sneakers bianche e t-shirt sotto il completo – che se la tirano in panchina come se avessero rivoluzionato il calcio dopo mezza stagione buona in qualche squadra senza pretese e pressioni. Tutti figli mal riusciti del guardiolismo (senza che Guardiola, tra l’altro, abbia qualche colpa per la mala interpretazione del suo calcio o per la sbavante esegesi dei suoi metodi). Ecco: io chiedo scusa perché erroneamente avevo inserito Italiano in questa lista – ed è ora che faccia ammenda.
Vincenzo Italiano ha 47 anni, una ventina in meno di Luciano Spalletti. Proprio vent’anni fa l’attuale commissario tecnico della nazionale faceva il grande salto dall’Udinese alla Roma, dopo la buonissima esperienza all’Empoli, con il doppio salto dalla C alla A, i chiaroscuri con la Sampdoria, l’esonero a Venezia e la buona prova ad Ancona. In seguito la sua carriera lo ha visto volare in Russia, allo Zenit, prima del ritorno a Roma, dell’esperienza all’Inter, del capolavoro a Napoli e dell’approdo meritato in nazionale. Insomma: un palmarès di prim’ordine, anzi eccellente. Certo: Spalletti non è Carlo Ancelotti (incredibile ma vero: i due sono coetanei e se vogliamo azzardare per il secondo, unico grande vate italiano ancora in attività, un successore – questo è oggi Simone Inzaghi) ma il tecnico di Certaldo rimane una delle punte di diamante di un movimento, quello degli allenatori italiani, da sempre al vertice mondiale della categoria.
Quindi, banalizzando: Italiano non sarà, magari, un Ancelotti – ma di certo è sulla strada buona per essere uno Spalletti. L’allenatore di Karlsruhe (sì, è nato e vissuto sei mesi in Germania) sembra ricalcare le prestigiose orme del c.t., tanto per calvizie quanto per innovazione. I risultati dimostrano questa tesi e forse, in proporzione, lo mettono in una posizione di vantaggio. Nel 2017/2018 porta l’Arzignano dalla D alla C; nel 2018/2019, primo anno da allenatore professionista, il Trapani dalla C alla B; fa lo stesso con lo Spezia l’anno seguente, dalla B alla A, riuscendo addirittura a rimanere nella massima serie al termine della stagione successiva.
Tre promozioni consecutive, dalla D alla A, passando sempre per i play-off, particolare che dimostra la sua propensione anche per le competizioni a scontro diretto. A seguire, il triennio alla Fiorentina in cui, nel pieno dello sviluppo di uno stile di gioco proprio, e quindi, anche, distribuendo errori nel processo di crescita – raggiunge risultati eccellenti (la viola veniva da un 16°, un 10° e un 13° posto): una volta al 7° e due all’8° posto in campionato, tre semifinali consecutive in Coppa Italia con una finale, persa, contro l’Inter e due partecipazioni alla Conference League concluse entrambe all’ultimo atto (perso due volte su due), con West Ham e Olympiakos. Nessun trofeo eppure tutti nuovi record per la viola. Ma è quest’anno, ancora non terminato, a certificare l’avvenuto approdo del tecnico nella cerchia dei grandi allenatori.
L’annata del Bologna (è bene parlarne, comunque vada, anche se balla ancora tra il terzo e il settimo posto, cioè tra un nuovo storico accesso alla Champions League e la conferma in una delle due coppe continentali succedanee) si prospettava tragica. Via Thiago Motta, condottiero della cavalcata 2023/2024, via Calafiori, Zirkzee, Arnautovic, Saelemaekers; via, quindi, i più forti della rosa, tra campo e spogliatoio. Eppure oggi il Bologna si trova, quando mancano solo cinque gare al termine, nella stessa posizione con cui ha concluso l’anno passato (5° posto), con una media punti migliore (1.82) pur avendo affrontato il mega girone di Champions League ed essere arrivata in finale di Coppa Italia dove, anche alla luce degli ultimi risultati, se la giocherà alla pari con il Milan di Conceição.
Questo, oltre a dimostrare la bravura di un DS come Giovanni Sartori [2] – certifica la preparazione tecnica di Italiano. Sarebbe sorprendente se l’anno prossimo, a meno che il Bologna non prosegua la sua crescita di obiettivi e quindi decida di rimanere in Emilia-Romagna, squadre come Juventus, Milan, Roma e Lazio (le cui panchine, con probabilità variabili, si libereranno) non pensassero a lui. Eppure queste società, almeno così riportano i mass media, ragionano su altri profili. Figure, evidentemente, più di moda – alla De Zerbi; un allenatore che, in proporzione, soffre di dezerbismo quanto Guardiola di guardiolismo.
Piccola parentesi: tra i vari risultati alla parola ‘moda’, sulla cara Treccani, considerandone l’uso come locuzione avverbiale, c’è scritto quanto segue: «Di moda, e rafforzato di gran moda, conformemente agli usi e al gusto del tempo, del momento: andare, essere di m., essere molto diffuso, conforme ai gusti più attuali, con riferimento, oltre che all’abbigliamento, anche ad abitudini, usanze, comportamenti che si siano temporaneamente imposti e che siano seguiti da quanti vogliono apparire raffinati, aggiornati, al passo con il proprio tempo: quest’anno vanno di m. le gonne corte e con la vita bassa; è di m. trascorrere le vacanze all’estero; le automobili americane non sono più di m.; diventare, venire di m.; tornare di m.; mettere, rimettere di m.» [3].
E andare di moda dipende, almeno in parte, dal merito. Per rimanere su Roberto De Zerbi, infatti, le inusuali scelte di carriera (che personalmente ritengo molto intelligenti: Ucraina, Inghilterra, Francia), staranno sicuramente portando esperienza ma a fronte di risultati non esaltanti. La lettura superficiale ci racconta, per esempio, dei successi a Brighton e Marsiglia – ma gli inglesi, quest’anno, pur senza l’allenatore italiano, sono ottavi (l’anno scorso arrivarono undicesimi dopo essere usciti in FA Cup col temibile Wolverhampton, aver preso una scoppola dalla Roma, 4 a 0 all’andata, in Europa League ed essere stati subito buttati fuori in Coppa di Lega, al terzo turno, dal peggior Chelsea dell’ultimo ventennio); mentre i francesi, ora ancora secondi, sono in caduta libera, 5 sconfitte nelle ultime 8, e con un ammutinamento dello spogliatoio in atto rischiano di compromettere addirittura la presenza in Europa l’anno prossimo (sono solo a +4 dallo Strasburgo, settimo).
Eppure ci viene quotidianamente raccontato di squadre di alto lignaggio in Serie A che proseguono la corte al tecnico bresciano, con endorsement continui, ultimo della lista quello di Totti per la panchina della Roma. Quindi, per essere più schietti possibile e sperando che nessuno si offenda: De Zerbi va di m. anche se va di m. (e, magia delle magie, le parole ‘moda’ e ‘merda’ sono interscambiabili in quest’ultima frase: provate a leggere, al posto delle ‘m.’, prima una e poi l’altra e viceversa).
Voglio, però, essere chiaro: ad andare di moda non c’è niente di male (idem ad andare di merda, anzi per un gioco è essenziale tanto che qualcuno vada bene quanto che qualcuno vada male, a maggior ragione per uno sport dal fortissimo stampo capitalistico, figlio dell’età industriale, come il calcio). Il punto è non confondere la moda col merito — e la merda con la cioccolata.
O meglio, come diceva Alda Merini, confondere quest’ultimo binomio è un privilegio delle persone molto colte; che è un po’ lo stesso concetto espresso da Woody Allen nel suo classico aforisma in cui ci spiega che il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile. Insomma: se davvero ancora ci avvinghiamo all’idea che De Zerbi sia il guru del calcio attuale o siamo imbecilli o siamo così intelligenti da poter fare gli imbecilli. E mi chiedo: perché se Roberto De Zerbi è visto come il migliore dei tecnici giovani (ha 45 anni), Vincenzo Italiano (che ne ha 47), invece, è sempre un po’ nelle retrovie dei giudizi?
Leggi, approfondisci, rifletti. Non perderti in un click, abbonati a ULTRA per ricevere il
meglio di Contrasti.
Abbonati
La comprensione dei meandri della moda rimane, per me, un vaste programme. Preferisco andare alle cose stesse e dire che il 4-2-3-1 di Italiano, affatto post-moderno, smussato dai frenetici e rapsodici cambi di interpreti che avevamo visto a Firenze, oggi più accorto e meno fumoso, semplificato nelle scalate difensive sistematiche dei mediani e non più delle ali, finalmente più libere da troppe coperture e quindi più lucide sotto-porta – semplicemente, funziona.
Nello specifico bolognese, Italiano ha capito cose del calcio moderno (uso questa accezione in senso positivo, filosofico, e non nel senso di quella modernità tanto giustamente detestata dal movimento ultras) che stanno portandolo a risultati di alto livello: esistono titolari e riserve, altro che tutti-titolari; la coppia di centrali difensivi non si tocca (Lucumí-Beukema); serve sempre categoricamente un regista a centrocampo (Freuler); i giocatori più tecnici devono essere messi al centro del progetto tattico (Orsolini); agli argentini fa bene la competizione (Dominguez e Castro). Ed è così che si cresce, così che, in un futuro, potremo esaudire un sogno: avere sì un Italiano sulla panchina dell’Italia – ma Vincenzo (da Vincentius, da vincens, participio presente del verbo vincere, cioè “che vince”).
[1] Cfr. J.-F. Lyotard (2004), La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Roma, p. 6
[2] Sarà interessante, in futuro, concentrarci su quanto decisivo e poco discusso sia il ruolo del d.s.; in questa prospettiva, per esempio, le esperienze di Marotta (oggi, bene ricordarlo, presidente dell’Inter), di Sean Sogliano (capace nella missione impossibile di salvare, e risalvare, l’Hellas Verona con mercati funambolici) e di, appunto, Giovanni Sartori (fautore dei miracoli Chievo Verona, Atalanta e Bologna).
[3] S.A., Moda, in Vocabolario Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/moda/