Calcio
08 Agosto 2024

Pickford l'inglese

Prima di Bellingham e Kane, è lui il vero leader dei Three Lions.

L’Inghilterra ha perso ancora. Tre anni dopo l’ultima volta, nella seconda finale consecutiva raggiunta agli Europei con Gareth Southgate. Una sconfitta maturata allo stesso modo di quella precedente: con gli inglesi morti di accortezza, quindi di paura. Se l’ultima volta festeggiava l’emozionante Italia di Mancini, oggi gioisce la bella Spagna di De La Fuente. Entrambe selezioni che hanno posto l’entusiasmo come loro padrone e senso d’unione collettivo.

Quello della roja è stato un Europeo voluto, aggredito e meritato. Esattamente il contrario di quanto espresso dalla povera Inghilterra, nonostante sia arrivata fino alla finale con tutti i sobbalzi al cuore possibili: ai supplementari contro la Slovacchia, ai rigori per eliminare la Svizzera e con un goal all’ultimo minuto per superare i Paesi Bassi. A qualcuno poteva esser venuta l’illusione di vedere finalmente un’Inghilterra cinica, pronta e matura. Poverini.



Inevitabile la separazione con Southgate, di cui sarà difficile delineare i confini fra merito e incapacità. Ma se vi è un fatto è che l’Inghilterra ha avuto per ben due volte l’occasione di affiancare qualcosa a quella Coppa del Mondo del 1966, ormai distante da noi quasi quanto i Sumeri. E che entrambe le volte ha perso le finali, di cui una a Wembley in modo indelebile.

Metabolizzato il proprio Maracanazo, gli inglesi hanno affrontato questo Europeo con un atteggiamento differente, privo della loro solita spavalderia. Comprensibile visto quanto prodotto in campo. Il geniale (e qui in Italia non compreso nelle sue note ironiche, purtroppo) coro It’s coming home ha abbassato i propri decibel per far spazio all’emozionante Don’t take me home, che nei propri versi trasuda esattamente il modo in cui gli inglesi si sono trascinati fino a Berlino: non per vincere davvero, ma per non perdere mai, per restare il più lontano possibile da casa, per bersi tutta la birra dei tedeschi. Dimenticandosi che prima o poi il calcio dovrebbe tornare a casa, per Dio.

Ma fra la noia e la sconfitta, quest’Inghilterra ci ha lasciato qualcosa cui dedicare riflessione. Fra tutti i suoi nomi altisonanti spacciati per divi, la Nazionale dei Tre Leoni appartiene soltanto a una persona: sir Jordan Pickford, portiere di mestiere ma soprattutto inglese da morire.

Fattezze odiose, sbruffone e sincere. Se non protagonista indiscusso, senz’altro personaggio memorabile, espressivo, vero. Born and made in Sunderland, Pickford è stato sempre descritto come un portiere fin troppo «esuberante» e «iperattivo» per esser preso sul serio ad alti livelli. E in effetti il nostro ha passato una vita in prestito (e in pena) prima di diventare il miglior portiere inglese odierno, nonché simbolo e salvezza dell’Everton in tempi recenti.

Giunto alla soglia dei trent’anni, oggi Pickford è senz’altro fra i portieri più affidabili della Premier League, ma questo non sarebbe stato possibile prima di compiere un cammino di strada battuta sufficientemente a lungo. L’inglese non ha mai avuto il bagliore del predestinato, ma soltanto la faccia britannica e gli atteggiamenti da peggior provocatore possibile; la struttura fisica non gli donato alcuna eccellenza per il suo mestiere, 185 centimetri, non granché per un portiere.

Spesso si è macchiato di errori grossolani, come quello che è costato all’Everton la sconfitta all’ultimo minuto nel derby contro il Liverpool nel 2018, o di duelli a distanza con i tifosi del Newcastle, che hanno paragonato Pickford a un T-Rex, dinosauro noto per le sue braccia ridicolmente corte (e quindi per le sue prese non irresistibili).

In nuce, esponente massimo dell’amata categoria del portiere pazzo, con alti e bassi precipitosi. Ed è proprio di questo che Pickford ha trovato la propria forza per emergere e diventare il miglior portiere d’Inghilterra: non sedare la sua indole, ma esaltarla al massimo delle proprie possibilità. Rigettando smussamenti e levigature, diventando estremo di un modo di essere, il proprio. Senza compromessi. È da questo concetto che proviene il Pickford mediatico, spesso pizzicato dalle telecamere in partita. Così arrogante ed esaltato nel mostrarsi compiaciuto di un salvataggio, così esibizionistico nelle smorfie e negli atteggiamenti provocatori. Da piena tradizione shithousery, tipicamente inglese e interpretata perfettamente negli ultimi anni da Jamie Vardy e Joe Hart.



Naturalmente questa verve attoriale è accompagnata (e soprattutto sorretta) da prestazioni efficaci. Negli ultimi anni possiamo delineare una crescita del suo rendimento in relazione alla sua arroganza estetica. Quest’estate Pickford ha obiettivamente esagerato, spostando l’asticella della tamarraggine ancora più in là rispetto al passato: i capelli dell’inglese sono stati completamente spianati dalla lacca, stirati all’indietro in modo feroce. Quella di Pickford è una vera e propria coreografia dell’inglese medio, rimpiazzando al meglio l’assenza estetica di Jack Grealish da questo torneo.

E così Euro 2024 è stato uno dei suoi migliori tornei disputati con la maglia dei Three Lions.

L’apice del suo Europeo è stato senza dubbio la partita contro la Svizzera. Qui c’è tutto il senso del Pickford showman, pieno di sé, provocatorio e di piena e autentica leadership. Negli ultimi minuti dei tempi supplementari, dopo un ottimo tentativo di Shaqiri direttamente da calcio d’angolo, Pickford fa un gesto di stima verso l’attaccante.

È un gesto inusuale, immerso in attimi di tensione massima. Ma è soltanto il suo primo smacco agli svizzeri, come se avessero ricevuto una pacca dalla spalla dal guantone del portiere inglese dicendogli good job. Un approccio semplicemente vincente per gli imminenti calci di rigori, da vero leader emotivo dell’Inghilterra. Ma lo show vero e proprio deve ancora iniziare: Pickford vive per i calci di rigore, parte di questo sport che manda letteralmente in paradiso la sua anima.



L’inglese parerà soltanto un rigore, quello di Akanji, ma la sua preparazione è stata addirittura un oggetto di studio nella psicologia dei rigori. È emerso che il difensore svizzero sia stato penalizzato dal teatro innalzato da Pickford, che ha fatto attendere il difensore sul dischetto per 14 secondi, un’eternità, un waiting for Godot in rito abbreviato.

A niente è servito l’intervento di Orsato, incapace di forare la tela del portiere dell’Everton: l’attesa di Akanji è stata piena obbedienza nei confronti di Pickford, che significa subalternità e dunque dominazione psicologica. Il difensore è rimasto lì, in attesa, nel pieno rispetto delle regole e della buona educazione, finendo per pensare più del dovuto. Tiro scialbo, rigore parato. L’Inghilterra può proseguire in serenità. E Pickford può divertirsi a fare smorfie indescrivibili sulla linea di porta.


A proposito di portieri pazzi e abilissimi psicologicamente.


Non scopriamo oggi che Pickford sia un ottimo pararigori. Non va dimenticato che nella finale contro l’Italia di tre anni fa l’inglese era riuscito a parare lo stesso numero di rigori di Donnarumma – Belotti e Jorginho contro Sancho e Saka, Rashford prese il palo. Per antonomasia l’atto più crudele del calcio, Pickford vive il calcio di rigore come la realizzazione stessa del suo essere, come estasi definitiva, estensione della sua eccentricità, già esposta in ogni sua componente da portiere.

Nella finale giocata contro la Spagna c’è un momento che quasi fa tenerezza per il modo in cui Pickford salva l’Inghilterra, nel suo pieno stile pittoresco. Poco prima del pareggio di Cole Palmer, l’area dell’Inghilterra viene fatta tremare da due traversoni opposti, Yamal da destra e da Dani Olmo a sinistra. È un’Inghilterra che ha paura del mondo, che oscilla come un vascello in balìa delle onde dell’oceano più tempestoso conosciuto.

La linea di difesa inglese si affida a Dio mentre i palloni fanno del cielo la loro traiettoria, già esausti e colti in apnea con lo sguardo affannato verso l’alto. Allora soltanto Pickford ha il coraggio di vestire le maglie della responsabilità e sopra di loro svetta entrambe le volte come un pirata, e con due pugni allontana quei palloni avvelenati il più lontano possibile, rotolandosi per terra e spalmandosi l’erbetta addosso, quasi ad autocelebrarsi.



Certo, fino a quando non è arrivato Oyarzabal in area. Ma nessuno desiderava e meritava un epilogo diverso quanto Pickford negli inglesi, vero squarcio ribelle e incomprensibile dell’Inghilterra tremendamente diplomatica targata Southgate. È il portiere il vero leader di questa nazionale così incolore, erroneamente posta sulle spalle di Jude Bellingham o di Harry Kane. È pur vero che la maglia con la croce di San Giorgio sul colletto è risultata insostenibile anche per due giganti come Lampard e Gerrard, quindi sarebbe inopportuno aspettarsi esito diverso per due come Bellingham e Kane, simboli naturali di questa selezione insulsa e debole di spirito.

Di Bellingham ricorderemo l’ottimo goal in rovesciata contro la Slovacchia, con quel «who else?» esclamato di fronte la propria gente, ancora convinto di esser dentro qualche spot per la Nike, seguito dal gesto de los huevos dedicato alla panchina avversaria, dipinto della volgarità del presente. Un gesto, in verità, quasi gradevole da vedere in questi tempi così deboli e sensibili, solo non fosse che Bellingham ha subito svelato la propria finzione mediatica sui social, suo habitat naturale, con un Tweet che smentiva che il gesto fosse rivolto agli slovacchi. Che noia.



Se Bellingham non ha saputo prendersi la responsabilità di un gesto così banale, figuriamoci se potesse essere (veramente) l’uomo della provvidenza in un’Inghilterra storicamente fragile. Per quanto un assist in finale lo abbia comunque servito, per carità, nonostante una prestazione impalpabile: rendiamo grazia ai numeri e ai feticci statistici di voialtri. Vi servono per tenere il segno, che è alla pagina sbagliata del libro che stiamo leggendo ad alta voce.

Di Kane, invece. Poverino. Il Ballack della nostra generazione. Perfino il Bayer Leverkusen, conosciuto fino all’altro ieri come Neverkusen, ha visto la gloria con Harry da avversario. Punta fortissima, talmente forte che riuscirà nell’impresa di ritirarsi senza aver toccato un trofeo o una medaglia da primo posto.

Così posato e attento nelle parole rivolte ai media, così pietoso nel mostrarsi comodo in queste vesti da sconfitto. Ormai finge pure di rimanere sorpreso quando esce dal campo battuto per l’ennesima volta nella sua carriera. Per capirci, sappiate che Harry Kane era presente in prima fila nella platea a cui Carmelo Bene dedicò «oh, sembrate dei morti!».

Capirete bene che soltanto un uomo come Pickford poteva risultare stimabile in questa marmaglia di inglesi impauriti. Ed è regola appurata nel calcio: quando il migliore dei tuoi è il tuo portiere, o hai perso o hai pareggiato. Gloria e memoria per Jordan Pickford, vero e unico inglese in una nazionale di calciatori insulsi e preregistrati. Per quanto totalmente opposto alla sua essenza, Gordon Banks sarebbe fiero di lui.

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A proposito di un'intervista poco pubblicizzata perché estremamente profonda.

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