L'ultima speranza per salvare e moralizzare lo sport italiano.
Oggi la congiura della Superlega è stata sventata, ma più si approfondisce la faccenda e più si amplia la cerchia dei complici. Tra chi ha ordito il piano in prima persona (Agnelli, Perez e compagni, insieme agli agenti finanziari) e chi sapeva, ha taciuto e poi si è ritirato come il peggiore dei vigliacchi (la FIFA), è difficile trovare anime candide ai piani alti della governance del calcio mondiale. Considerando anche che i “salvatori”, Boris Johnson e Ceferin, hanno agito innanzitutto per difendere i propri interessi politici ed economici, c’è davvero poco da festeggiare. In fin dei conti, rimane oggi una sola certezza, magari banale ma difficilmente opinabile: se vorranno salvare quel che resta del “meraviglioso gioco”, i tifosi dovranno contare soltanto sulle proprie forze. La loro arma? L’azionariato popolare, ultima speranza per tutelare il legame tra società e tifoseria, sempre più sottile in questi tempi bui.
La missione di chi intraprende questo tipo di progetti è rafforzare il rapporto tra la squadra ed il suo territorio, con ogni mezzo possibile. Ovviamente comprare quote societarie ed ottenere una rappresentanza all’interno della proprietà del club, in modo da poter influenzarne la gestione, è la via più altisonante; tuttavia i metodi tramite cui costruire il dialogo tra dirigenza e tifosi sono innumerevoli: iniziative a fini sociali e volontariato, manifestazioni per la tutela della storia e l’avvicinamento dei giovanissimi, progetti di ripartenza post fallimento e raccolte fonti. Club e tifosi devono innescare una collaborazione che abbia ricadute positive sulla comunità tutta.
Nel nostro ordinamento, le basi per questo modello sono state poste nel luglio 2019 con un emendamento al DDL “Delega sullo Sport”, che ha sancito un impegno all’introduzione di forme di partecipazione popolare ed azionariato diffuso nelle società sportive. L’iniziativa a firma Lega-M5S (supportata dal comitato NOIF, come vedremo) non costituiva un’autentica legge, ma quantomeno un embrionale riconoscimento per un soggetto giuridico fondato da un gruppo di tifosi all’interno di un club.
Generalmente queste entità corrispondono ad associazioni o cooperative, accomunate dall’essere fondate “dal basso” e contraddistinte da un’organizzazione democratica per cui una testa vale un voto; riconosciute giuridicamente ed a responsabilità limitata, la composizione flessibile permette la partecipazione da 100 a 100000 soci. Il carattere “no profit” e l’orientamento alla comunità sono crismi imprescindibili.
L’ azionariato popolare in UK, Spagna e Germania
Sono innumerevoli le modalità e gli strumenti per concretizzare questi orientamenti, così come le nazioni interessate dall’azionariato popolare, ma tre sono i modelli che possono essere considerati di riferimento. Innanzitutto ci sono i Supporters’ Trust, il volto inclusivo dell’altrimenti opprimente “Modello Inglese”, spesso esaltato alle nostre latitudini con troppa superficialità; infatti tramite queste associazioni ha preso corpo la reazione dei tifosi nei confronti di un football che si allontanava dal suo dodicesimo uomo. Dal 1997, quando ormai si era compiuta la mutazione da First Division a Premier League, e cominciavano a palesarsi le sue storture, sono sorti più di 160 Trust dalla massima serie fino alla Non-league.
Così negli ultimi vent’anni numerosi gruppi di tifosi si sono associati, allo scopo di entrare nella proprietà del proprio club con motivazioni differenti: contrastare l’operato delinquenziale del presidente, ripartire dopo l’onta del fallimento, o semplicemente rinsaldare il legame tra piazza e società. Oggi, vicende come quelle del dissidente United of Manchester e del redivivo AFC Wimbledon hanno restituito dignità al gioco più bello del mondo; queste due società sono esempi di “Community Clubs” in cui la maggioranza societaria è detenuta proprio dai tifosi, e hanno già suscitato simpatia ed emulazione anche al di qua della Manica.
È significativo che questo modello sia nato nella terra del football ed oggi sia quello più emulato all’estero: in Gran Bretagna la deriva intrapresa dal calcio ha provocato una risposta che si è concretizzata in un forte associazionismo degli appassionati; non stupisce che proprio qui sia fallito il piano della Superlega ed i tifosi abbiano manifestato in massa contro di essa. Il divario culturale e giuridico con il nostro Paese è netto.
Se dalle parti di Wimbledon sono tornati i Dons, il merito è esclusivamente dei tifosi (AFC Wimbledon)
Ultimamente però, contravvenendo al tipico isolazionismo britannico, c’è chi vorrebbe l’introduzione di vincoli affini alla “Regola del 50%+1”, fondamento legale per il potere dei tifosi nei club tedeschi. Tale norma garantisce chel’autoritàdecisionale sia nelle mani di gruppi di sostenitori, strutturati su base di partecipazione democratica; infatti la maggioranza delle azioni dei club è di proprietà pubblica, mentre la restante quota è destinata agli investitori privati.
Introdotto alla fine degli anni ’90, nell’ambito del passaggio dei club professionistici da associazioni a S.p.a, questo vincolo ha permesso di tutelare la figura dei tifosi in un contesto sportivo, che si apriva alla raccolta di capitali finanziari e alla ricerca di nuove risorse. Senza dubbio è un modello affascinante, che non nasce propriamente dall’azione dei tifosi, ma tutela la loro figura di primi proprietari di quello che rimane un bene collettivo. Oggi la Regel 50%+1 gode di grande fama, tanto da essere evocata forse con eccessiva superficialità; bisogna tenere conto del contesto peculiare in cui è nata, la Germania appena riunificata, e la cultura aziendale tedesca, storicamente orientata alla cogestione (Mitbestimmung), perciò basata sul coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali.
Attualmente le due eccezioni alla regola sono Wolfsburg e Leverkusen, tradizionalmente di proprietà di Volkswagen e Bayer, assetti societari comunque avallati dalle rappresentative dei tifosi. Nonostante le rigogliose presenze negli stadi tedeschi ed uno stato di salute del calcio sicuramente positivo, testimoniato anche dai risultati della Mannschaft, nelle ultime stagioni si sta infoltendo sempre più la schiera dei detrattori di questa regola: evidentemente, anche Oltralpe, sono numerose le volpi decise a divorare la gallina dalle uova d’oro contando sulla liberalizzazione del pallone.
“Il 50+1 è inviolabile!”: i tifosi tedeschi hanno le idee chiare (Stuttgarter Zeitung)
Passando invece alla Spagna, nell’ottobre 1990, la “Ley del deporte” ha costretto tutti i club professionistici a convertirsi da associazioni a società sportive per azioni (Sociedad Anonima Deportiva). All’epoca soltanto Real Madrid, Barcellona, Athletic Bilbao ed Osasuna sono state esentate dalla riforma, in quanto i loro bilanci rispettavano particolari requisiti; ecco perché queste società rappresentano il tradizionale modello spagnolo, assetto di riferimento anche per le realtà portoghesi e sudamericane. Anche questo sistema è imposto dall’alto, nel tentativo di regolare un cambiamento in cui si intrecciano gestione economica e sportiva; si può dire che le premesse e gli scopi siano simili al caso tedesco.
Per spiegare il suo funzionamento, possiamo prendere come esempio la squadra catalana, che fa del motto “Mès que un club” un vanto e un simbolo distintivo, ed a cui sono affiliati circa 150000 soci in tutto il globo. Il 2,5% di essi è sorteggiato per comporre l’assemblea generale, che detiene il potere di approvare il bilancio e le sponsorizzazioni, di modificare lo statuto societario, così come di richiedere mozioni e riunioni straordinarie. L’organo si interfaccia con una “Junta” di circa venti soci, che hanno il compito di coadiuvare il presidente; quest’ultimo viene eletto ogni quattro anni tramite votazione diretta e si occupa della gestione economica in primis. Non sappiamo quale votazione abbia spinto il Barcellona verso la Superlega , ma l’organigramma societario dovrebbe aver garantito ai soci il diritto di esprimersi.
I primi fiori nella Penisola
Nel nostro Paese la primavera dell’azionariato popolare sta fiorendo da una decina di anni appena, ed il campo più florido è senza dubbio quello calcistico. Si può dire che siano stati elaborati gli stimoli giunti dall’estero e siano poi stati rielaborati nell’originale etichetta di “Calcio popolare”. Infatti le serie dilettantistiche nostrane hanno offerto un terreno fertile alla nascita di club interamente gestiti e finanziati da tifosi, omologhi dei “Community Clubs” sopra citati; in altri termini iniziative “reazionarie” rispetto ad un pallone privo ormai di qualsiasi dimensione etica.
Ideale Bari e Centro Storico Lebowski sono due degli esempi più significativi di questo vivaio così variegato, arricchito da germogli che si stanno sviluppando in tutto lo Stivale. Ma non sono solo le piccole realtà a percorrere la via: anche in capoluoghi come L’Aquila e Palermo, oppure in centri “minori” ma appassionatissimi, quali Vigor Lamezia e Fasano, si stanno sviluppando progetti analoghi.
Il calore degli Ultimi Rimasti, il cuore del Centro Storico Lebowski (fb Centro Storico Lebowski)
Risalendo al vertice della piramide del calcio italiano, si può dire che siano sempre più numerose le associazioni di tifosi che progettano di intervenire nella gestione del proprio club; si pensi a Livorno Popolare come ultimo ed eclatante caso. L’apripista dell’azionariato popolare in Serie A è stato il Trust “My Roma” che, attivo dal 2010, è riuscito a comprare una quota di azioni della società, acquisendo sempre più credibilità nel turbolento ambiente giallorosso.
Se MyRoma è azionista della ASR quotata in borsa, invece ToroMio, associazione dei tifosi del Torino, vuole promuovere il confronto tra il club e tutti i protagonisti del passionale ambiente torinista. Fondato nel 2010, non rientra nella proprietà del Torino, ma vuole porsi come primo interlocutore nel dialogo tra società e comunità, facendosi portavoce di diverse realtà, dai club di tifosi alle associazioni che tutelano la tradizione granata.
Dopo anni di mutuo sostegno, nel 2018 MyRoma, ToroMio e APA Milan hanno deciso di fare squadra fondando il comitato “Nelle Origini Il Futuro“, che oggi annovera associazioni di tifosi di Parma, Modena e Rimini, Cosenza, Sassari Torres e Acireale, oltre ai Leones Italianos dell’Athletic Bilbao. La missione di questa coalizione è la promozione di una proposta di legge che definisca giuridicamente sia la società sportiva partecipata (“il contenitore”), sia l’ente di partecipazione di tifosi, battezzato da loro “Comunità Sportiva”.
L’emendamento al DDL dell’estate 2019, citato ad inizio articolo, è frutto della loro collaborazione insieme agli Onorevoli Simone Valente e Giancarlo Giorgetti. Missione compiuta soltanto parzialmente però, dato che il decreto non è stato ancora applicato; la partita è ancora aperta, ma il NOIF non demorde.
Sempre in Italia la rete “Supporters In Campo” è nata nel 2013 con l’obiettivo di sviluppare la partecipazione dei tifosi nelle società di calcio, offrendo competenze e sostegno nella formazione delle associazioni e nelle relazioni con club ed istituzioni. Frutto del coinvolgimento di appassionati italiani nel progetto europeo “Migliorare la governance del calcio attraverso il coinvolgimento dei tifosi e la proprietà della comunità” , questo collettivo partecipa all’organizzazione SD Europe, patrocinata dalla UEFA ed attiva in trentotto paesi; oggi coinvolge ufficialmente 40 associazioni del calcio italiano, un numero che pare destinato a crescere.
A dimostrazione di come la necessità di coinvolgere i tifosi nella gestione dei club non riguardi solo il calcio, si può citare il tentativo di salvataggio della Virtus Roma che, durante l’inverno 2019, aveva lanciato un’operazione di “equity crowdfunding” con l’obiettivo di raccogliere nuove risorse ed allargare la partecipazione alla gestione societaria. La campagna non aveva dato i frutti sperati, ma non si può escludere che questa iniziativa non ispiri altre piazze del nostro basket, che versa ormai in una annosa crisi economica e gestionale.
Qualche mese prima rispetto all’esperimento capitolino, a Reggio Calabria era stato fondato il Supporters Trust Viola, associazione tramite cui i tifosi avevano posto le basi della ripartenza della Pallacanestro Viola dalla quinta serie. Invece oggi, il 40% del capitale dell’Aquila Basket Trento è detenuto da un associazione di tifosi, il Trust Aquila, testimoniando come tale modello di gestione possa essere adottato con successo, anche nel massimo campionato. Infine, sempre a proposito di iniziative nate “dal basso”, bisogna citare le “palestre popolari” che si stanno affermando nelle periferie di numerose città: orgogliose realtà autogestite e finanziate, nate con l’obiettivo di conciliare discipline come la boxe con iniziative di impegno sociale.
Oggi si può dire che la crescita dell’azionariato popolare nel nostro Paese sia una solida tendenza, nel calcio ma non solo; tuttavia rimangono alcuni ostacoli a frenarne la diffusione, al di là delle valutazioni prettamente economiche-finanziarie. In primis, nell’opinione pubblica deve ancora maturare la concezione di un sistema sportivo tifo-centrico, ovvero improntato sul ruolo centrale del sostenitore; gli appassionati dovranno svestire i tradizionali panni di folk devil (personaggio principale della strategia del “panico morale”), cuciti loro addosso dalla demonizzazione a mezzo stampa, divenendo così protagonisti nell’ambito sportivo e comunitario.
In un sistema storicamente basato sul buon cuore del mecenatismo, soprattutto il tifoso medio deve comprendere come il suo impegno in prima persona sia un passaggio fondamentale per il superamento di società sportive di stampo “padronale”. Come dicevamo, dal punto di vista culturale la Gran Bretagna rimane il punto di riferimento. A fine anni ’80, proprio mentre il calcio inglese diveniva terra promessa dell’endiadi calcio-business, con il passaggio da First Division a Premier League, i tifosi reagivano tramite l’associazionismo.
Per quanto riguarda le istituzioni invece, dalla politica ci si aspetta la concretizzazione dell’iter parlamentare del DDL Sport e del relativo emendamento sulla definizione giuridica dell’azionariato popolare. Un percorso estremamente complesso che, nonostante sia ad un passo dalla conclusione, in realtà ha rischiato di essere vanificato dall’ultima ed estemporanea proposta targata M5S; sicuramente è fondamentale che la politica dimostri sensibilità al tema, ma le proposte improvvisate possono essere un autogol in partite così delicate.
Colmare l’attuale vuoto normativo sarà un segnale inequivocabile anche per la classe imprenditoriale nostrana. Nelle scuole di gestione aziendale si rimarca l’importanza di confrontarsi e soddisfare tutti coloro che portano interessi nei confronti dell’impresa; tanto più che la “responsabilità sociale d’impresa” è un tema distintivo del management odierno. Eppure sembra che ascoltare e rispettare i sostenitori, “stakeholders” per eccellenza nel settore sportivo, raramente rientri nella visione dei dirigenti. Paradossalmente, pur essendo considerati quasi esclusivamente come clienti, i tifosi non hanno mai ragione.
Al di là della vittoria di Euro2020, la crisi non ha fatto altro che palesare l’elefante nella stanza: il fallimento del modello gestionale dello sport italiano. Oggi il sistema è vittima di ardite condotte imprenditoriali avallate da un contesto politico-istituzionale permeato dall’affarismo. È giunto il momento di ripensare il paradigma sportivo in un’ottica di sostenibilità economica e responsabilità sociale, riportando al centro tanto i praticanti quanto i tifosi, vera anima di questo mondo. L’ora è già scoccata, il ritardo è notevole ma forse non irrecuperabile.
Nell’immagine di copertina i festeggiamenti del Palermo Calcio Popolare (foto tuttocampo)